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Lettere

Quale questura e quali poliziotti per la città di Verona

La divisa non è un simbolo di potere ma il segno distintivo di responsabilità, di fedeltà senza tempo al servizio del bene comune

La sede della Questura di Verona in lungadige Galtarossa
La sede della Questura di Verona in lungadige Galtarossa

Nella Polizia ci sono stati uomini, come il vicequestore Filippo Cosenza, il commissario capo Guido Masiero, il commissario aggiunto Antonino Gagliani Candela, il vicecommissario aggiunto Giuseppe Costantino e il vicebrigadiere Felice Sena che, mettendo in atto tutti i possibili ostacoli burocratici, permisero a quasi 270 dei 300 ebrei schedati dalla questura di Verona di salvarsi dai campi di concentramento nazisti nel periodo 1943/1945.

Ci sono stati poliziotti, sempre in forza alla Questura scaligera, che in tempi a noi molto più vicini si sono resi protagonisti di reati particolarmente gravi, dalla tortura all’abuso di ufficio, in un contesto – conosciuto da alcuni loro colleghi – di disgusto per le regole e di sfregio all’uniforme.

Nel primo caso, per risolvere il conflitto personale di ogni poliziotto tra l’eseguire gli ordini ed il senso di umana pietà verso tanti innocenti la cui unica colpa era l’origine ebraica, si è violata la legge per salvare la dignità dell’uomo; nel secondo caso si è violata la legge per imporre non il rispetto dell’autorità, bensì il timore dell’autorità a tutto scapito della condizione di essere umano.

Se confermate in sede di giudizio (mercoledì 14 giugno sono iniziati gli interrogatori di garanzia per i cinque poliziotti finiti agli arresti domiciliari e per altri diciassette per i quali è stata chiesta la sospensione dal servizio per un anno), le accuse nei confronti dei 22 indagati andrebbero a delineare un quadro di triste continuità con fatti che, tralasciando quanto avvenuto a Genova nel lontano 2001, hanno colpito negativamente l’opinione pubblica negli ultimi tre anni.

Si pensi solo alla caserma dell’Arma Levante a Piacenza (primo caso nel nostro Paese di un immobile militare sequestrato per ordine dell’autorità giudiziaria), oggetto fra l’altro di un secondo filone d’inchiesta concluso dalla Guardia di finanza lo scorso 9 giugno.

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Nel novembre del 2022 la Corte d’appello di Bologna aveva condannato cinque dei carabinieri coinvolti nella prima inchiesta. Sono pochi? Certamente, a fronte di circa 108.000 militari dell’Arma; e sono altresì pochi i cinque poliziotti agli arresti domiciliari che non rappresentano neppure il 2% di tutti i 412 effettivi in organico alla questura scaligera. Però, siccome i numeri raccontano molto ma non spiegano tutto, i casi di malapolizia balzati all’onore delle cronache impongono alcune considerazioni.

La prima riguarda la catena di comando. Il tenente generale Giuseppe Ardito, dal 25 aprile 1997 al 13 ottobre 2001 comandante delle Forze terrestri alleate del Sud Europa e delle Forze operative terrestri dell’Esercito, soleva affermare che essere ai vertici significava conoscere, emanare direttive, impartire ordini e, soprattutto, controllare.

Un’affermazione, questa, ancor oggi valida, soprattutto se da qualche parte è stata adombrata l’ipotesi che quanto avvenuto nella questura scaligera sia stato frutto pure di una «cogestione» tra amministrazione e sindacati «nella politica del personale. Il sindacato, teniamolo presente, è stato una scuola di democrazia per i poliziotti. I veri mali vanno individuati altrove», scriveva nel gennaio del 1995 Franco Fedeli, uno dei padri della legge di riforma della Pubblica sicurezza, nell’editoriale pubblicato sul primo numero dell’anno di Nuova Polizia e riforma dello Stato, il periodico da lui fondato e diretto.

Polizia di Stato

La seconda ha a che fare con la legge 190 che il 6 novembre 2012 ha dettato disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione dell’illegalità all’interno delle amministrazioni pubbliche. Ricordato che le forze armate e di polizia sono una branca specializzata della pubblica amministrazione, occorre che pure all’interno di tali apparati si operi una rotazione del personale, compatibilmente con l’età (alle volanti della Polizia di Stato o alle pattuglie del nucleo radiomobile dell’Arma non può essere destinato un cinquantenne) e con la specializzazione dello stesso. Ciò per evitare che si creino nicchie di potere e si consolidino frequentazioni inopportune.

La terza concerne la contrapposizione creatasi quasi subito tra il partito delle polizie ed il partito delle divise sporche. Ora, se è vero che la frase «si tratta solo di mele marce» è infelice proprio sotto il profilo ortofrutticolo (pochi frutti andati a male possono guastare l’intero cesto), altrettanto infelice è la posizione di quanti sostengono che la gran parte di coloro che indossano una divisa siano dei malviventi e dei violenti.

La dialettica è la regola della democrazia: il ricorso allo scontro ideologico, per cui l’obiettivo è far apparire l’altro un mascalzone che fa solo cose cattive, è un danno per tutti, non solo per gli appartenenti alle forze dell’ordine.

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L’ultima considerazione rimanda all’editoriale citato prima (intitolato “Contro il virus dell’illegalità”), nel quale Fedeli scriveva pure: «Bisogna impedire che negli organici delle forze di polizia si annidino giovani privi di valori, sensibili al solo arricchimento e al successo, condizionati dal consumismo, interessati alle più spregiudicate forme di carrierismo».

Non sembrano queste parole il ritratto di qualcuno degli indagati? Di qualcuno che non ha capito che la divisa non è un simbolo di potere, ma il segno distintivo di responsabilità, di fedeltà senza tempo al servizio del bene comune? Di qualcuno che ha ignorato che Sub lege libertas, il motto della Polizia di Stato, non consiste nell’assenza di regole, ma è il segnale di una convivenza nella quale la vita di tutti i cittadini deve svolgersi entro i confini del diritto?

Antonio Mazzei

Written By

Antonio Mazzei è nato a Taranto il 27 marzo 1961. Laureato in Storia e in Scienze Politiche, giornalista pubblicista è autore di numerose pubblicazioni sul tema della sicurezza. antonio.mazzei@interno.it

1 Comment

1 Comment

  1. Marcello Toffalini

    20/06/2023 at 11:23

    Grazie Mazzei di codesta analisi: di sicuro qualcuno, pure in servizio, “non ha capito che la divisa non è un simbolo di potere, ma il segno distintivo di responsabilità, di fedeltà senza tempo al servizio del bene comune”. Anche per questo occorre trovare la possibilità che gli agenti in servizio siano in qualche modo riconoscibili dai cittadini.

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