In una economia di mercato anche il salario è il risultato dei rapporti di forza, fra la domanda di lavoro che viene dai lavoratori e l’offerta delle imprese. Oggi si chiama contrattazione, ma in passato ci sono state contrapposizioni forti, scontri anche violenti, cannonate vere sugli operai, tra serrate e scioperi duri che bloccavano il Paese.
D’altronde gli interessi in gioco sono grandi. Si tratta di ripartire il plusvalore prodotto dalle attività economiche, frutto dell’incontro fra capitale e forza lavoro. Ma se negli ultimi trent’anni il salario reale è diminuito è perché la forza contrattuale del mondo lavorativo è andata calando, trascinando verso il basso tutte le retribuzioni, anche quelle prima mediamente più elevate, oltre che i diritti e il welfare. In trent’anni le retribuzioni reali italiane sono diminuite del 2,9% ed impietoso è il confronto con gli altri Paesi europei.
Perché è successo questo? Per il grande inganno del neoliberismo degli anni ’80 al quale la sinistra italiana non ha saputo o voluto opporsi. Meno Stato e più mercato, era lo slogan, con la promessa che disinvestimenti pubblici, privatizzazioni, contenimento dei salari e flessibilità del lavoro avrebbero favorito crescita e ricchezza per tutti. Invece le buste paga si sono impoverite, mentre sono aumentate precarietà e disoccupazione. Era quest’ultimo l’obiettivo vero, perché una disoccupazione alta e strutturale divide i lavoratori togliendo loro potere contrattuale.
Il rimedio al lavoro povero è il salario minimo legale? Meglio di niente, ma già sappiamo che non risolverà il problema. Ci sono anche dei rischi: il primo è che tutte le retribuzioni siano trascinate verso il basso da un riferimento minimo di legge, che toglie forza alle trattative nei rinnovi contrattuali. Il secondo è che i salari sotto il minimo rimangano in realtà dove sono.
I salari da fame, di soli 5-6 euro l’ora, e spesso inferiori e senza diritti, si annidano proprio dove prosperano anche il lavoro nero e l’evasione fiscale. Si trovano nel caporalato agricolo, in parecchi settori del turismo, dell’alberghiero e ristorazione, con part time fasulli, contratti finti e precarietà vera. Per questi datori di lavoro pirata, non sarà difficile simulare il rispetto formale del salario minimo legale, ma nella realtà continuare come prima.
Peraltro il salario minimo legale ben difficilmente diventerà legge. Lo aveva proposto nella precedente legislatura il Movimento 5 Stelle, lo appoggiano oggi il PD e la sinistra, ma non lo vuole la attuale maggioranza di governo di destra. Inoltre non lo sostiene il sindacato per il quale giustamente la via maestra è la contrattazione collettiva. Infine, la direttiva europea che lo prevede, per l’Italia non è obbligatoria, dato che nel nostro Paese oltre l’80% dei lavoratori è coperto da contratti collettivi nazionali.
Che fare allora? Innanzitutto intensificare la lotta al lavoro nero, stranamente sempre complicato da scovare benché sia ben noto dove si annida. Ma importante è dare più forza contrattuale ai lavoratori, con una politica inversa a quella neoliberista degli anni ’80. Per questo sono indispensabili investimenti pubblici che riducano la disoccupazione a valori fisiologici (2-3%) ed assunzioni nella sanità, nella scuola e nella pubblica amministrazione, ormai da decenni carenti di personale.
Il salario non deve essere minimo, deve essere giusto. L’art.36 della Costituzione italiana è chiarissimo e recita che la retribuzione deve garantire, al lavoratore ed alla sua famiglia, un’esistenza libera e dignitosa. Libertà e dignità, un binomio inscindibile di valori che fanno grande e nobile una Repubblica che si fonda sul lavoro. Non c’è libertà dove per poter sopravvivere si è costretti ad accettare salari da fame e condizioni di lavoro indegne.
Serviranno però importanti risorse finanziarie, l’Unione Europea ce lo permetterà? Prima o poi anche Bruxelles e la BCE, davanti alla realtà, saranno costretti a cambiare paradigmi. Ricorderanno che i debiti pubblici si ripagano con la crescita economica, e che magari invece di rincorrere vanamente una inflazione al 2%, meglio sarebbe un obiettivo di disoccupazione al 2%
Claudio Toffalini

Claudio Toffalini è nato a Verona nel 1954, diplomato al Ferraris e laureato a Padova in Ingegneria elettrotecnica. Sposato, due figli, ha lavorato alcuni anni a Milano e quindi a Verona in una azienda pubblica di servizi. Canta in un coro, amante delle camminate per le contrade della Lessinia, segue e studia tematiche sociali e di politica economica. toffa2006@libero.it

Cristina Stevanoni
17/05/2023 at 15:06
Claudio,grazie! Non è giocando con le parole che si fa rispettare la Costituzione. Ma, ti chiedo e vi chiedo: possiamo tollerare che proprio a Verona, dentro la nostra città d’arte e d’amore, una Cooperativa paghi 4 euro all’ora le lavoratrici e i lavoratori che prestano servizio nei Musei? Possiamo tollerare che questo avvenga sotto i nostri occhi, ora che Report ha tolto il coperchio dalla pentola del brodo indecente? Va bene così o non possiamo dire qualcosa subito, concretamente essendo di aiuto? Io mi vergogno. E tu? E voi?