In questi primi giorni dell’anno si sono fatti passi decisivi per l’elezione del prossimo Presidente della Provincia di Verona, prevista per domenica 29 gennaio. Data la particolare situazione della Provincia, divenuta istituzione di secondo livello, a votare non saranno i cittadini ma i consiglieri comunali dei 98 Comuni del nostro territorio, che sono 1.303.
Partiti da una scelta di continuità della Lega, disponibile a riconfermare il presidente uscente, Manuel Scalzotto, a fronte del manifestarsi di alcuni dissensi nella stessa Lega, tanto che si profilavano altre candidature come i sindaci di Grezzana (Alberti) e di Cerea (Franzoni), la soluzione si è complicata prospettando possibili divisioni che avrebbero proiettato i loro effetti negativi sulla vita stessa della Provincia.

Manuel Scalzotto
È risultato decisivo l’intervento del sindaco di Verona Damiano Tommasi, il quale ha dichiarato la sua disponibilità a sostenere una soluzione, anche di centrodestra, purché espressione unitaria. Una apertura di particolare valore dato il grosso peso specifico del voto dei consiglieri comunali del Comune capoluogo, ponderato in relazione al numero degli abitanti.
In tal modo Tommasi ha giocato con intelligente realismo la scelta della soluzione unitaria, finalizzata a un impegno comune a sostegno del territorio veronese, avendo, tra l’altro, presente la necessità di un impegno della rappresentanza parlamentare del centrodestra a sostegno della soluzione di diversi problemi della città.
La proposta ha sortito una nuova soluzione con la candidatura unitaria del sindaco leghista di Nogara Flavio Pasini, accettato da tutti e dallo stesso Tommasi.
A questo punto il voto del 29 gennaio risulta orientato in quest’unica direzione, per cui appare possibile un rapporto futuro di leale collaborazione tra gli enti locali veronesi che rappresenterebbe una positiva novità rispetto alla tendenziale situazione conflittuale precedente.
Resta tuttavia il fatto, a Verona come su tutto il territorio nazionale, dell’incerta collocazione costituzionale dell’istituzione Provincia, che negli ultimi tempi ha notevolmente ridimensionato il suo ruolo di servizio, soprattutto nei confronti dei piccoli comuni.
La regolazione iniziale dell’ente Provincia, prevista dall’art. 114 della Costituzione poi completata dalla riforma del Titolo V, parte seconda della stessa Costituzione (Legge 3.2001) e dalla legge Delrio (Legge 56.2014) finalizzata all’uscita della Provincia dal Titolo V, seconda parte.
Con il fallimento del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, relativo alla legge Renzi-Boschi, che prevedeva appunto la cancellazione delle Province dall’art. 114 della Costituzione, si è determinata una situazione di incertezza legislativa relativa al riassetto territoriale degli enti intermedi, che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 240.2021 definisce come “conseguente e perdurante operatività delle province e l’attribuzione ad esse di determinate funzioni fondamentali, non di mero coordinamento”.
In assenza di interventi le Province sono rimaste enti funzionali retti da governi di 2° grado, con un ruolo marginale rispetto al passato.
Con il rilancio della prospettiva autonomistica, oltre all’autonomia regionale è tornato, soprattutto nel centrodestra ma ha interessato anche parte del Pd, l’interesse per una nuova legislazione dell’ente Provincia con la presentazione di alcuni disegni di legge, in gran parte coincidenti, tesi a ripristinare l’elezione diretta dei consigli e dei presidenti di provincia, e a ridare loro funzioni e risorse necessarie una serie di servizi territoriali rivolti in particolare ai piccoli comuni.
Una scelta comprensibile, dati i vuoti di iniziativa politica e amministrativa registrati negli ultimi tempi, ma che cozza contro i limiti di risorse disponibili per finanziare contemporaneamente nuove funzioni di Regioni e Province. Un eccesso di trasferimenti di risorse in periferia che il nostro bilancio pubblico non può permettersi, tanto più che, come dimostra l’esperienza, non abbiamo sufficienti garanzie che un trasferimento di questo genere corrisponda a una maggiore qualità dell’amministrare i servizi pubblici.
In particolare, la recente esperienza regionale in materia di sanità pubblica va in tutt’altra direzione, e la stessa cultura istituzionale della relativa classe dirigente ha messo in evidenza preoccupanti vuoti e distorsioni verso interessi politici di parte.
Tutto questo non depone certamente a favore della nuova autonomia regionale differenziata, che il ministro Roberto Calderoli intende imporre comunque sulla base dei semplici rapporti di forza in Parlamento.
In ogni caso, prima di procedere in direzione di una nuova legislazione per le province rimane assolutamente necessaria una analisi approfondita e aggiornata sui reali bisogni territoriali ai quali una istituzione di area vasta come la Provincia dovrà far fronte, per evitare distorsioni e di ruolo e inadeguati stanziamenti di risorse.
Una nuova politica territoriale, all’altezza dei reali bisogni dei diversi territori richiede una cultura e una responsabilità politica che finora sono state in gran parte assenti.
Luigi Viviani

Luigi Viviani negli anni Ottanta è stato membro della segreteria generale della CISL, durante la segreteria di Pierre Carniti. Dopo aver fondato nel 1993 il movimento dei Cristiano Sociali insieme a Ermanno Gorrieri, Pierre Carniti ed altri esponenti politici, diviene senatore della Repubblica per due legislature. Nel corso della legislatura 1996-2001 è stato sottosegretario al Lavoro con il ministro Cesare Salvi; nella successiva, vicepresidente del gruppo dei Democratici di Sinistra al Senato. viviani.luigi@gmail.com
