INTERVISTA – Il Conservatorio di Verona, intitolato al musicista Evaristo Felice Dall’Abaco (Verona, 1675 – Monaco di Baviera, 1742), nasce ufficialmente nel 1968, ma il suo nucleo originario è da ricercare nella “Scuola d’istrumenti ad arco” fondata nel 1878. Questo lo rende una delle istituzioni culturali più antiche della città scaligera, nella quale opera attivamente non solo a scopi didattici, ma anche attraverso una variegata produzione artistico-musicale, fruibile da tutti i cittadini. Per saperne di più su questa realtà e scoprire la sua posizione culturale all’interno del contesto veronese, abbiamo intervistato la direttrice del Conservatorio, Laura Och.

Laura Och
– Och, se fosse a colloquio con la nuova assessora al Turismo e alla Cultura Marta Ugolini, quale sarebbe la prima proposta culturale che avanzerebbe?
Och. «In realtà ho già avuto un colloquio con l’assessora. Abbiamo parlato di alcuni aspetti pratici, quali la riorganizzazione degli spazi del Conservatorio e la nostra assoluta necessità di ampliamento. Il Conservatorio è in espansione, dispone di due sedi prestigiose ma in questo momento non è abbastanza».
– Quando parla di ampliamento si riferisce solo a una questione di spazi oppure anche a un ampliamento generale di ciò che il Conservatorio rappresenta come istituzione?
Och. «Sono due aspetti legati tra loro. Siamo organizzati come un’università e, se vogliamo aggiungere dei corsi di studio, la prima questione che dobbiamo porci è quella della collocazione fisica degli insegnanti. Oggi le aule sono appena sufficienti per le nostre esigenze».
– Estendiamo il discorso al contesto generale della cultura a Verona. Le istituzioni in questo campo appaiono spesso slegate tra loro. Sarebbe disposta a sedersi al tavolo con gli altri enti della città per sondare eventuali sinergie?
Och. «Assolutamente sì. L’incapacità di fare sistema è da sempre il problema principale della cultura veronese. Manca un’istituzione in grado di ergersi a capofila di un’iniziativa comune, forse perché siamo noi veronesi a essere un po’ individualisti».
– Le responsabilità dunque non sono da attribuire solo alla politica…
Och. «Chi gestisce un’istituzione culturale deve essere disponibile a lavorare insieme agli altri enti locali. È necessario che ognuno apra le porte per creare una politica culturale del territorio».
– Voi come lo fate?
Och. «Dalla fine dello stato di emergenza, ovvero dal 31 marzo, ci siamo mossi con due open day, un incontro con gli insegnanti delle scuole medie e vari concerti decentrati in collaborazione con le bande».
– Carcereri De Prati ha ipotizzato una rete informatica comune per agevolare collaborazioni tra le istituzioni culturali. Come giudica questa idea?
Och. «Potrebbe essere un’ottima soluzione in quanto molto pratica: la creazione di un database degli eventi culturali permetterebbe di evitare sovrapposizione di date. Una questione delicata anche per noi, che non ci occupiamo solo di didattica, ma anche di produzione artistico musicale».
– A tal proposito, la Fondazione Arena vi ha contattato per qualche iniziativa inerente alla centesima stagione d’opera del 2023?
Och. «Finora no. Ma il Conservatorio è sempre disponibile alle collaborazioni».
– Storicamente quali sono i vostri rapporti?
Och. «Negli anni passati la Fondazione Arena ha commissionato la realizzazione di un’opera ai nostri studenti di composizione. Attualmente i nostri iscritti sono invitati a degli spettacoli e possono acquistare biglietti a un prezzo di favore. Ma, reciprocamente, dovremmo essere tutti più propositivi, anche se i loro ingranaggi sono differenti dai nostri».
– Che idea si è fatta del programma operistico del prossimo anno?
Och. «Bellissimi titoli, anche se un po’ tradizionali, ad eccezione del Barbiere di Siviglia. Del resto in Arena, visto l’indotto turistico che garantisce, non si possono presentare opere d’avanguardia. Tuttavia credo che qualche scelta più temeraria sarebbe necessaria per svecchiare i programmi».
– Spesso si sente dire che “la lirica non basta più” e che “è cambiato il pubblico”. Cosa ne pensa?
Och. «Più che il pubblico è cambiato il modo di fruire la musica. A risentirne maggiormente però non è lo spettacolo operistico, bensì il concerto sinfonico. Qui l’elemento visivo è meno centrale e sempre più spesso, a causa delle nuove tecnologie e piattaforme, si pensa che l’aspetto musicale dal vivo possa essere sostituito dalla musica riprodotta».
– In prospettiva quale deve essere il ruolo dell’Arena nel contesto culturale veronese?
Och. «Si deve imporre come ente di produzione artistica sia in senso economico, ma anche culturale. L’Arena è un’istituzione in cui l’intera cultura cittadina deve potersi identificare, potenzialmente paragonabile ai Berliner Philharmoniker a Berlino. Può raggiungere tali livelli di iconicità per i veronesi solo mantenendo tanto la programmazione estiva in Arena quanto quella invernale al Filarmonico».
– Però i veronesi, diversamente che in passato, frequentano poco l’opera…
Och. «L’Arena, essendo un unicum al mondo, è più turistica. La Fondazione, da sola, riesce a fare poco per i veronesi: dovrebbe puntare anche su altre strutture teatrali e creare sinergie con le istituzioni locali. Tra le quali il Conservatorio, che meriterebbe un posto più rilevante».
– Il Conservatorio come sta dopo due anni di pandemia?
Och. «La pandemia ha causato grandi difficoltà, anche perché ci ha costretti a una significativa riorganizzazione delle strutture. Ma ha lasciato anche qualche strascico positivo: tutti i docenti hanno imparato a utilizzare la tecnologia dovendo fare lezione online».
– Ma a livello di bilancio?
Och. «La situazione è positiva. Stiamo godendo di molti finanziamenti europei conseguenti alla pandemia. In più possiamo contare anche sulle risorse del Next Generation EU, che stiamo sfruttando per creare con le scuole medie e superiori una filiera didattica continua».
– E per quanto riguarda le iscrizioni?
Och. «L’uso della tecnologia ci ha avvantaggiato anche qui. Siamo riusciti ad agganciare allievi provenienti da altre città italiane e anche diversi stranieri, che hanno fatto crescere il numero degli iscritti».
– Oggi molti giovani intraprendono la carriera musicale senza basi solide. Com’è possibile che il Conservatorio non riesca ad attrarre un target che pare già interessato alla materia?
Och. «In realtà la nostra offerta formativa si è modernizzata in maniera importante negli ultimi 30 anni, con il dipartimento di musica jazz e corsi come basso elettrico. Sono ambiti accessibili anche a chi non è esperto di musica e di solito i giovani che si iscrivono arrivano già con una preparazione specifica».
– Il problema è che si fa poca musica a scuola?
Och. «Esatto. Purtroppo nelle scuole secondarie manca per la musica un’offerta analoga a quella che si trova per le arti figurative. Si dovrebbe fare storia della musica anche nei licei, per formare il gusto e la cultura dei giovani. Ma in Italia non c’è la capacità di costruire una vera e propria filiera educativa».
– Oltre alla formazione, che ruolo culturale auspica per il Conservatorio nel percorso che il nuovo assessorato intraprenderà?
Och. «Noi produciamo eventi musicali, opere e concerti. Auspico che tutto questo venga riconosciuto dall’assessora Ugolini come facente parte della cultura veronese e che l’Amministrazione comunale ci agevoli nell’educare i giovani alla musica».
– Tra il 2017 e il 2018 lei era tra le intellettuali che caldeggiavano per Verona capitale della cultura. Perché il progetto è naufragato?
Och. «È stata una sconfitta su cui i veronesi dovrebbero riflettere. Abbiamo perso un’occasione perché le istituzioni non hanno dialogato tra loro. Più in generale, il problema è che tra esponenti del mondo culturale intratteniamo spesso ottimi rapporti personali, ma non lo facciamo quasi mai a livello istituzionale».
– Un ultimo spunto per l’assessora Ugolini?
Och. «Suggerisco di considerare la musica come un valore aggiunto della cultura veronese, non solo come una distrazione ricreativa. E magari di sfruttarla per valorizzare, attraverso concerti, alcuni luoghi di Verona da riscoprire, come la zona dell’ex macello in cui abbiamo già suonato jazz l’anno scorso».
Gregorio Maroso
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Gregorio Maroso è laureato in Filosofia, Editoria e giornalismo all'Università di Verona. Da sempre si interroga sulla vita e spera che indagare e raccontare i suoi aspetti nascosti possa fornirgli le risposte che cerca. gregoriomaroso@gmail.com
