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Interviste

Dalla carta al digitale, il rischio di perdere la memoria

INTERVISTA – Come conserviamo la cultura che stiamo producendo? Lo spiega Daniela Brunelli, coordinatrice del sistema bibliotecario dell’Università di Verona e presidente della Società letteraria

memoria

INTERVISTA – La pervasività del digitale ha diffuso l’illusione che la memoria della cultura umana, declinata in ogni sua forma, si sia definitivamente cristallizzata nelle pagine ipertestuali che consultiamo tutti i giorni e che lì rimarrà sempre reperibile.

In realtà, il costante progredire della tecnologia può rendere obsoleta qualsiasi certezza e dunque come conservare le nostre testimonianze creative e intellettuali diventa, oggi più che mai, un tema centrale.

Un ruolo fondamentale in questo senso sembra spettare ad archivi e biblioteche: ma come si stanno organizzando ora che anche la memoria si è fatta virtuale? Per saperne di più abbiamo intervistato Daniela Brunelli, coordinatrice del sistema bibliotecario dell’Università di Verona e presidente della Società Letteraria.

Daniela Brunelli

Daniela Brunelli

– Brunelli, in che modo l’avvento del digitale sta cambiando la conservazione della memoria?

Brunelli. «Di fatto, l’ha già cambiata. Bisogno però fare un distinguo tra l’editoria rivolta a lettori privati, in cui il formato cartaceo è ancora dominante e probabilmente continuerà ad esserlo, e quella relativa alla formazione scolastica, universitaria e aziendale, che è caratterizzata da un impulso alla digitalizzazione molto forte. In questo settore accademico, dove si sono sviluppati formati nativi digitali dalla diffusione decisamente superiore a quella della carta, ci si è resi conto dell’intangibilità della memoria di queste produzioni, che, in virtù della loro natura, devono essere tutelate con maggiore riguardo nell’aspetto della conservazione».

– Come si fa a tutelare una memoria dalla natura così volatile?

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Brunelli. «Esistono progetti nazionali nei diversi Paesi per l’archiviazione della memoria, intesa come testimonianza della produzione intellettuale e creativa degli esseri umani, e anche grandi piattaforme e hardware che utilizzano applicazioni informatiche in costante evoluzione nel tempo. Questo può costituire un problema: il rapido progresso tecnologico rischia di causare delle perdite della memoria culturale. Basti pensare che i primi supporti di archiviazione digitale, sviluppati negli anni Ottanta, erano i CD-ROM e oggi non disponiamo di computer in grado di leggere quei CD».

– Il mercato influenza costantemente questo processo evolutivo, producendo nuove tecnologie. Come costruire una strategia di conservazione della memoria a lungo termine in un contesto simile?

Brunelli. «In questo senso, nell’ambito accademico, si scontrano approcci diversi: da un lato ci sono le fonti open source, le quali nascono dall’idea che le conoscenze debbano essere aperte e i dati scientifici circolare senza barriere; dall’altro troviamo le logiche commerciali dei grandi gruppi editoriali, che fanno il proprio interesse. Questi hanno sviluppato la tendenza di costringere le istituzioni accademiche ad abbonarsi, con un costo piuttosto elevato, alle loro piattaforme, garantendo ai ricercatori di quelle istituzioni la pubblicazione di articoli senza costi aggiuntivi e una diffusione maggiore delle loro produzioni. Sul versante opposto invece troviamo progetti di cooperazione fra biblioteche, studiosi e cittadini, che consentono di implementare piattaforme ad accessibilità gratuita».

– Per esempio?

Brunelli. «Il faro di questo tipo di esperienze sono stati gli Stati Uniti, con progetti come Archive.org. Dopodiché sono sbarcate anche in Europa, con Europeana, una biblioteca digitale che riunisce contributi digitalizzati a 360 gradi (film, dipinti, giornali, archivi sonori, manoscritti, mappe) provenienti da tutti i Paesi membri dell’Unione Europea, e nelle singole nazioni. In Italia, per esempio, è attivo il progetto Manuzio».

– C’è qualche progetto relativo all’Università di Verona?

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Brunelli. «Certo. I principali sono il progetto Mambrino, il Codice digitale degli archivi veronesi e il Laboratorio di studi Medievali e Danteschi. In questi casi è l’Università di Verona che, per le sue finalità di ricerca, provvede, a proprie spese, alla digitalizzazione di fonti storiche situate in importanti biblioteche, come la Biblioteca Civica di Verona o la Biblioteca Capitolare, e le mette a disposizione della comunità scientifica, salvaguardandole dall’usura del tempo».

– Abbiamo parlato dei grandi gruppi editoriali e dell’ambito accademico. Se invece un giornale o una rivista online, in mano ad un privato, chiudono, come viene preservata la loro memoria?

Brunelli. «In questi casi è responsabilità del privato decidere che cosa fare della sua testata, cioè se garantirsi uno spazio di conservazione e accessibilità permanente, premunendosi di una piattaforma di deposito, oppure no. Un discorso simile vale anche per giornali e riviste cartacee private».

– In che senso?

Brunelli. «La carta dei quotidiani è di scarsa qualità e tende a sbriciolarsi nel giro di 50 anni, ma i costi che una biblioteca si troverebbe ad affrontare nel digitalizzare tutte le collezioni della sua emeroteca sarebbero esorbitanti. Perciò, se l’editore privato non ha provveduto alla digitalizzazione storica dei propri contenuti cartacei, tutte queste informazioni vengono perdute. Per evitarlo si può però ricorrere a tentativi disperati: alla Società letteraria di Verona, per esempio, utilizziamo un macchinario per mettere sottovuoto le principali testate giornalistiche che non hanno un’accessibilità digitale, in modo da proteggerle dagli agenti patogeni che distruggono la carta».

– Le pare che le istituzioni riservino il dovuto interesse al tema della conservazione della memoria?

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Brunelli. «Si sta sviluppando una certa sensibilità in questo senso. Sia da parte degli editori privati, visto che è in gioco anche il loro profitto, che delle istituzioni pubbliche. In particolare, queste ultime hanno capito che la vasta accessibilità garantita dal digitale migliora la qualità del lavoro e quindi si muovono in moda da favorirla: l’Agenzia per l’Italia Digitale (AGID) ha emanato le linee guida per la gestione dei documenti informatici delle pubbliche amministrazioni, che producono masse enormi di informazioni digitali. Anche in quest’ambito si pone il problema della tutela e della conservazione dei dati».

– In conclusione, quali sono i pro e quali i contro della digitalizzazione della memoria?

Brunelli. «I lati positivi riguardano la tutela e la salvaguardia dei beni materiali dall’usura e l’accessibilità globale a cui la digitalizzazione apre: uno studioso, per consultare documenti unici molto distanti fisicamente, non deve più spostarsi, perché può farlo comodamente da remoto. Lati negativi francamente non riesco a vederne, se non il rischio di perdere informazioni a causa dei repentini mutamenti tecnologici. Con la dovuta attenzione si può però ovviare a tutto questo, rendendo i dati conservati sempre disponibili in futuro».

Gregorio Maroso

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Gregorio Maroso è laureato in Filosofia, Editoria e giornalismo all'Università di Verona. Da sempre si interroga sulla vita e spera che indagare e raccontare i suoi aspetti nascosti possa fornirgli le risposte che cerca. gregoriomaroso@gmail.com

2 Comments

2 Comments

  1. Maurizio Danzi

    02/05/2022 at 13:53

    Bella intervista

  2. Marcello

    30/04/2022 at 16:37

    Mi permetto di non essere del tutto d’accordo con la dr.ssa Brunelli nel caso delle riviste passate ad Internet, ma già salvate fisicamente nell’emeroteca comunale. Come giustamente ha rilevato Giorgio Montolli, per le riviste passate dalla stampa al modello On-line il privato potrebbe infatti scegliere di sacrificarne la memoria la cui conservazione e fruibilità dovessero portare ad “un costo ritenuto insostenibile o comunque non opportuno”: in questo caso “ il rischio di perdere informazioni a causa dei repentini mutamenti tecnologici” potrebbe concretizzarsi facilmente, rendendo così impossibile la memoria successiva di quelle pubblicazioni. Un ente pubblico come la Biblioteca comunale o quella Universitaria dovrebbe porsi questo problema, cercando magari un’intesa con gli editori privati coinvolti.

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