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Verona capitale del vino, il problema è per quanto tempo ancora

Dopo i fallimenti degli ultimi anni, con perdita di pezzi rilevanti dell’economia veronese, il settore chiede una chiara visione del futuro e sforzi progettuali adeguati

In questi giorni la nuova rassegna del Vinitaly, sulla duplice spinta derivante dalla progressiva uscita dalla pandemia e dalla necessità di reagire agli effetti della guerra russo-ucraina, si sta svolgendo con grande successo, riportando Verona all’attenzione internazionale nel mercato del vino.

Un risultato positivo che contribuisce a inserire Verona tra le prime dieci province esportatrici del Paese, sul quale la città, ed in particolare la politica, già impegnata nella campagna elettorale per le prossime elezioni comunali, stanno cercando di lucrare la relativa rendita con la presenza di alcuni ministri, del presidente regionale Luca Zaia e dei candidati sindaci a Palazzo Barbieri.

Al di là di questi aspetti tradizionali, credo che l’occasione si presti ad alcune considerazioni tese a evitare che anche in questo settore di eccellenza non si ripeta quanto è avvenuto in altri comparti, con la perdita da parte dell’economia veronese di rilevanti opportunità di crescita futura.

Il successo della crescita ed esportazione del vino veronese trova la sua spiegazione in due fattori determinanti legati al territorio. Il primo è dovuto all’impegno e alla maestria degli agricoltori veronesi del settore, che per decenni hanno realizzato una produzione di uva e vini tipici di eccellenza, noti in tutto il mondo (Amarore, Recioto, Custoza ea altri), e dato vita a diverse cantine, progressivamente cresciute con l’iniziativa e la creatività delle generazioni successive.

Il secondo fattore di successo è stato il ruolo di Veronafiere che attraverso manifestazioni come lo stesso Vinitaly ha collegato la produzione del vino locale con i mercati internazionali.

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Se però proiettiamo lo sguardo sul futuro del settore ci accorgiamo che l’attuale risultato positivo, per essere confermato, ha bisogno di alcuni interventi strutturali.

Da questo punto di vista il recentissimo “patto di Verona” per la promozione del vino italiano a livello europeo attraverso la tutela dalle contraffazioni, la difesa del consumo moderato, la revisione della politica agricola europea e la promozione del made in Italy, va tutto bene, a parte lo svarione di Zaia che, dopo aver mancato gli obiettivi più impegnativi, giudica il PNRR “concepito in un’era glaciale”. Soltanto che tale positiva intesa, rispetto a Verona, si limita a difendere il vino nel presente, mentre trascura le prospettive future.

È vero che stiamo vivendo una fase estremamente difficile, nel quale il rincaro energetico e delle materie prime minacciano la stessa vita delle imprese, e si lotta per sopravvivere. Tuttavia, da questa situazione si può uscire in due modi: o lamentandosi e sperando solo nelle provvidenze pubbliche, oppure innovando e investendo per costruire un futuro diverso.

Dal lato produttivo la struttura attuale del nostro settore vitivinicolo, fondata su cantine piccole e medie, appare inadeguata a reggere la concorrenza sempre più agguerrita sul mercato globale. A parte il mantenimento della qualità del prodotto, il sistema ha bisogno di alcune grandi imprese, veri campioni nazionali, in grado di aumentare la competitività complessiva del sistema coinvolgendo anche le piccole imprese con forme di cooperazione innovative.

Sul versante della Fiera va tenuto presente che un suo futuro da protagonista richiede un’ulteriore crescita anche dimensionale, accompagnata dai relativi investimenti. Una condizione oggi impossibile, come testimonia la difficoltà con cui si è realizzata l’ultima ricapitalizzazione di 30 milioni con l’intervento, per certi versi anomalo, della Fondazione Cariverona.

Per affrontare con relativa tranquillità il futuro credo che Veronafiere debba integrare la prevalente proprietà comunale con la partecipazione di alcuni soggetti privati del settore per rafforzare la sua stabilità finanziaria e, nello stesso tempo, stabilire un’alleanza con altra fiera in modo da integrare e completare la sua attività a livello di un campione nazionale.

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Per realizzare tutto questo serve che la politica locale abbia una idea sufficientemente definita del futuro del settore e si impegni con coraggio e determinazione per realizzarlo con la partecipazione consapevole del settore privato. Una linea opposta a quella della politica attuale del centrodestra attuale che percepisce la competitività dei mercati esterni come una minaccia alle nostre imprese.

Non a caso Zaia chiede una loro difesa giuridica tramite la golden power per impedire acquisizioni estere, mentre considera il PNRR, non una occasione eccezionale per progettare un futuro più avanzato del nostro territorio, ma una sorta di mammella da mungere per coprire le difficoltà del momento.

Vinitaly rappresenta quindi, per la politica locale, un test decisivo, per invertire la tradizionale linea di progressivo decadimento delle realizzazioni del passato per poi dover cederle per mancanza di idee e di risorse. Per garantire un futuro di ulteriore crescita a un risultato di eccellenza sono richieste scelte politiche di altrettanta qualità, altrimenti, come insegna anche il recente passato, l’esito negativo è inevitabilmente segnato.

Luigi Viviani

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Luigi Viviani negli anni Ottanta è stato membro della segreteria generale della CISL, durante la segreteria di Pierre Carniti. Dopo aver fondato nel 1993 il movimento dei Cristiano Sociali insieme a Ermanno Gorrieri, Pierre Carniti ed altri esponenti politici, diviene senatore della Repubblica per due legislature. Nel corso della legislatura 1996-2001 è stato sottosegretario al Lavoro con il ministro Cesare Salvi; nella successiva, vicepresidente del gruppo dei Democratici di Sinistra al Senato. viviani.luigi@gmail.com

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