Degno modo per celebrare il settimo centenario dantesco: con un addio a Santa Maria della Scala e alla storia scaligera che lascia indifferente Verona.
Si chiama così, della Scala, la chiesa chiusa da lunedì, perché fu Cangrande a volerla 700 anni fa: il patrono di Dante chiamò a insediarsi non lontano dall’Arena i Servi di Maria. Quei frati che ora se ne sono andati da Verona dopo aver venduto il convento costruito sui terreni concessi dal signore scaligero.

Due frati Servi di Maria tra le macerie della chiesa di Santa Maria della Scala dopo il bombardamento del 4 gennaio 1945
“Dispiace, era un’oasi di pace”, titola il quotidiano cittadino, citando un fedele. Ma non è «un problema dei preti». Come spiega Tomaso Montanari nel bellissimo libro Chiese chiuse (Einaudi), questi sono templi della società civile, della cittadinanza, non solo di una fede.
C’è bisogno di ricordarlo? Perfino per una chiesa che si chiama della Scala? Sì, quello stemma che ostentano orgogliosamente anche i tifosi gialloblù: e non simboleggia l’Hellas, butèi, ma quei signori medievali che sognarono ben più di uno scudetto per questa città.

L’interno della chiesa di Santa Maria della Scala prima del bombardamento del 4 gennaio 1945
Non sappiamo perché i frati Servi di Maria abbiano venduto il convento: erano rimasti in tre, possiamo immaginare che le spese fossero diventate insostenibili.
«Ero stato loro ospite. Allora i frati erano 18, ma nel convento avevano 35 posti», racconta il parroco uscente della vicina San Nicolò, don Roberto Vinco, che i lettori di Verona In apprezzano per il suo settimanale commento del vangelo.
Chissà che bed&breakfast ne verrà fuori! Visto che abbiamo già il nightclub Amen a irridere il vicino santuario di Lourdes sulle Torricelle, suggeriamo di chiamare il nuovo hotel L’alcova dai frati. Ah, no, scusate: un esercizio che si chiama così c’è già, naturalmente in zona Duomo. Ma resta disponibile l’insegna All’albergo diVino, con la maiuscola, attenzione, che non si abbia altro nume fuor dell’Amarone. I nuovi padroni della casa, del resto, potranno richiamarsi alla tradizione veronese, sparlando dei frati.
Capitò di essere calunniato, a Santa Maria della Scala, il più famoso tra i Servi di Maria, che vi fu ospite negli anni Sessanta: David Maria Turoldo.

David Maria Turoldo
Il religioso, già celebre come poeta e profeta, arrivò a Verona da Milano, dove negli anni di guerra aveva partecipato alla Resistenza e dove era diventato famoso come predicatore nella chiesa in corsia dei Servi. Non lontana dal teatro alla Scala, che a proposito si chiama così perché è sorto dove c’era un’altra Santa Maria della Scala, chiesa voluta da Beatrice Regina della Scala, parente del nostro Cangrande.
Guarda un po’ i casi della storia: anche la chiesa di Verona rischiò di diventare un teatro, quando Napoleone fu il primo a cacciare i frati. Magari anche ai padroni del nuovo hotel interessa trasformare la chiesa in teatro? La Scala2, la vendetta?
Torniamo a David Maria Turoldo alla Scala di Verona. Scrive la sua biografa Mariangela Maraviglia: «Verona si rivelò una tappa fugace dell’obbligato pellegrinare turoldiano. Giunto il 18 novembre 1960, padre David si allontanò ripetutamente per il consueto susseguirsi di conferenze e convegni nel corso del mese di dicembre e della prima metà di gennaio.
Il 16 gennaio la cronaca annotava la “visita inaspettata del Vicario Generale diocesano Mons. Zancanella per questioni di Chiesa e di Turoldo”, questioni che avrebbero fatto giungere a Verona anche il vicario provinciale padre Aldo Lazzarin e padre Clemente Alba, ricevuti il 17 dal vescovo. Il 19 Turoldo partiva “definitivamente” per Udine. “Misericordia, lei è molto scomodo. E solo convincendosi di questa Sua dimensione potrà non disperarsi”, gli scriveva pochi giorni dopo l’affettuoso padre Ferin, ipotizzando una soluzione svizzera (probabilmente Mendrisio) “per una azione Sua disimpegnata da tutte le pastoie di questa brava gente”.
Ma cosa era successo nell’arco di quei pochi giorni? Lo scriveva lo stesso avvilito Turoldo in alcune lettere inviate ai superiori e in copia al generale Montà. Al vescovo Giuseppe Carraro di Verona Turoldo riferiva dell’allarme suscitato inconsapevolmente da alcune visite a una particolare famiglia, visite interrotte “non appena mi accorsi della stupidità dell’equivoco e della ombrosità che potevo suscitare”.
Aggiungeva amaramente: “Ormai ho quarantacinque anni; ho passato la guerra, difficoltà e peripezie d’ogni genere. Ma questa è la prima volta che mi capita di sentirmi accusato di certe cose”.
Con l’amico De Piaz sarebbe stato più esplicito: “propositi di seduzione a una donna”; ma aggiungeva anche del successo di pubblico delle sue predicazioni domenicali: “con grande allarme e preoccupazione dei preti, specie limitrofi”.
Al vicario Aldo M. Lazzarin, padre David chiedeva scusa “per il disturbo procuratovi da un caso così gratuito e avvilente” e affermava di volersi ritirare “in buon ordine in un posto al riparo da qualsiasi nuova insidia”. Avrebbe vissuto nel convento di Santa Maria delle Grazie di Udine e presso i suoi familiari».
La citazione è dal libro di Mariangela Maraviglia David Maria Turoldo. La vita la testimonianza (1916- 1992), Morcelliana, Brescia, 2016, pagine 259-260. Ringraziamo l’autrice per la segnalazione e invitiamo i lettori interessati a seguirla on-line venerdì 4 febbraio alla presentazione del nuovo libro Turoldo, un Lazzaro dell’Amore scritto da Paolo Bertezzolo ed edito da Mazziana.
Capita ai conventi di restare senza soldi. In corsia dei Servi a Milano, nella loro chiesa di San Carlo, c’è una lapide con i nomi dei benefattori. Tra questi, Cino del Duca, l’editore di Grand Hotel, già emigrato in Francia, dove in guerra aveva partecipato alla Resistenza e poi era diventato un magnate della stampa.
Un partigiano che a Milano avrà aiutato i frati di Turoldo, come a Parigi aiutò Darno Maffini, l’espatriato veronese che sfilava il 14 luglio sugli Champs Elysées in testa ai partigiani de la Libération.

Giovanni Badile, affreschi con Santa Lucia, Cristo nel sepolcro e Santa Caterina venuti alla luce nel 1999
Lo raccontò Darno, in camicia rossa, tornato a Verona come oratore per i 50 anni dalla Liberazione: «Avevano dato lo sfratto alla nostra associazione dei Garibaldiens, i partigiani immigrati in Francia. Lo dissi alla vedova di Cino e lei comprò il palazzo a Parigi, perché ci restassimo ancora».
Ma non ci sono più benefattori in vena di regali e neanche santa Lucia: l’avevano riscoperta i frati in un’affresco, nell’ultimo restauro del 1999, nascosta dietro un armadio. Ora è ritornata al buio.
Giuseppe Anti

Giuseppe Anti è nato a Verona il 28 agosto 1955. Giornalista, si è occupato di editoria per ragazzi e storia contemporanea; ha curato fino al giugno 2015 gli inserti "Volti veronesi" e le pagine culturali del giornale L'Arena. giuseppe.anti@libero.it

Maurizio Danzi
04/02/2022 at 14:14
Bellissimo e sapiente articolo
Cristina Stevanoni
04/02/2022 at 07:53
Grazie, ha detto tutto il bravissimo Anti. Sembra proprio una storia alla veronese, questa: anzi, lo è. E si capisce forse perché Dante rimase (volentieri?) a Verona: terra fertile per la fantasia d’un poeta, che già sapeva d’essere il più grande.
gabriele
03/02/2022 at 12:36
Beppe Anti, priore ad honorem di Verona In… un Intervento “ spaziale” per l’ampiezza di orizzonti, religiosi e civili, che abbraccia.