“Paracetamolo e vigile attesa” avevano lasciato perplessi e basiti molti italiani, per alcuni era un atto di resa al Covid, per altri un sinonimo per indicare un modo non professionale di affrontare i problemi. Ci ha pensato ora il TAR del Lazio su istanza del Comitato Cura Domiciliare Covid-19. Il 15 gennaio scorso il TAR ha infatti annullato quella parte della circolare del Ministero della Salute che nella gestione domiciliare dei pazienti con infezione SARS-CoV-2, prevedeva la “vigilante attesa” e la somministrazione di Fans e Paracetamolo.
In realtà “paracetamolo e vigile attesa” è prassi normale e riconosciuta da tutti in molte malattie, soprattutto quelle stagionali di tipo respiratorio e virale, tuttavia in quel contesto pandemico con centinaia di morti al giorno, ospedali al collasso e l’Italia in lockdown con il fiato sospeso, quella direttiva era parsa a tutti inappropriata.
Le motivazioni della bocciatura del TAR?: “l’imposizione ai medici di vincolanti scelte terapeutiche si pone in contrasto con l’attività professionale così come demandata al medico dalla scienza e deontologia professionale”. In pratica uno svilimento del ruolo essenziale del medico di base da parte del ministero. Inoltre quel vincolo, secondo il Comitato promotore, avrebbe praticamente lasciato i cittadini senza cure domiciliari precoci, bloccando di fatto la sanità territoriale e portando di conseguenza al collasso il sistema ospedaliero.
È doveroso ricordare che quei primi mesi del 2020 sono stati difficili, con una malattia nuova ed aggressiva per la quale non esisteva ancora un vaccino e nemmeno un farmaco efficace e risolutivo. Ma mentre gli italiani, bambini ed adulti, reagivano fiduciosamente con lo slogan “Andrà tutto bene” e dai balconi cantavano con orgoglio l’Inno d’Italia, il ministero della Salute preferiva invece ignorare l’esperienza, la competenza e i suggerimenti dei medici di base, in prima linea contro il Covid.

Lo slogan anticovid “Andrà tutto bene”
La Procura di Bergamo sta da tempo indagando sulle prime fasi della pandemia in Italia e nella provincia omonima, ed in particolare ad Alzano e la Val Seriana. A tal proposito il prof. Andrea Crisanti nei giorni scorsi ha depositato una prima relazione che ricostruisce quegli avvenimenti con analisi e valutazioni tecniche, per il momento tenute riservate. Sono però ben fissate nella memoria di tutti le esitazioni ed i ritardi, in quei giorni dei primi di marzo 2020, nella costituzione della zona rossa ad Alzano, con i militari pronti in loco ma non utilizzati, salvo poi essere chiamati con i camion per trasportare le bare, molte delle quali si sarebbero potute evitare agendo con maggiore tempestività.

Andrea Crisanti
Un’altra responsabilità che pesa sul ministero della Salute è il mancato aggiornamento del Piano anti pandemico cui avrebbero dovuto provvedere il ministro in carica ed i suoi predecessori, e per la parte tecnica il Direttore Generale della Prevenzione che dal 2014 al 2017 era Ranieri Guerra. Anche su questo mancato aggiornamento sta indagando la Procura di Bergamo, così come sulla imbarazzante vicenda dell’insabbiamento dello studio curato dal ricercatore dell’OMS Francesco Zambon riguardante la prima risposta dell’Italia alla pandemia. L’Italia purtroppo non è stata un modello nella lotta al pandemia, soprattutto nella prima fase.
Ora per fortuna abbiamo il vaccino, bastione fondamentale nella prevenzione del Covid, abbiamo anche i monoclonali e altri farmaci che con vari protocolli sono utilizzati per curare la malattia. Ora il Covid fa un po’ meno paura, ma non si devono dimenticare gli errori e le improvvisazioni tecniche e politiche nella gestione della pandemia e nelle comunicazioni sul vaccino.
Il ministro della Salute Roberto Speranza si assuma le sue responsabilità, cominciando magari proprio con la pubblicazione della ricerca di Zambon. Sarebbe un atto di verità e di coraggio.
Claudio Toffalini

Claudio Toffalini è nato a Verona nel 1954, diplomato al Ferraris e laureato a Padova in Ingegneria elettrotecnica. Sposato, due figli, ha lavorato alcuni anni a Milano e quindi a Verona in una azienda pubblica di servizi. Canta in un coro, amante delle camminate per le contrade della Lessinia, segue e studia tematiche sociali e di politica economica. toffa2006@libero.it

Claudio Toffalini
19/01/2022 at 23:20
Gent. dott. Ricci, leggo sempre volentieri i suoi articoli e commenti, ed apprezzo gli approfondimenti medico-scientifici relativi al mio post. Mi pare tuttavia che i suoi ampi commenti siano per alcuni aspetti un po’ ellittici rispetto al senso del mio post in particolare per i punti 3 e 4.
paolo ricci
20/01/2022 at 14:47
Commenti “ellittici”, lei mi dice, ma proprio sinceramente non capisco la metafora…
Claudio Toffalini
20/01/2022 at 17:48
Ellittici nel senso che le sue argomentazioni sono spostate su questioni laterali, pur interessanti ed importanti, rispetto al focus del mio post.
Per quanto riguarda lo studio Zambon, lo sanno anche i sassi che si è trattato di un insabbiamento per alcuni passaggi che davano fastidio al Ministero della Sanità.
Non ho chiesto la “testa” di nessuno ma responsabilità e verità.
paolo ricci
20/01/2022 at 23:03
Mi domando: “ciò che da’ fastidio” è di per sé stesso necessariamente accoglibile, a prescindere? Mi fermo qui.
paolo ricci
19/01/2022 at 16:23
Alcune osservazioni puntuali all’analisi dell’ing. Toffalini sulla gestione della pandemia in Italia.
(1)
E’ certamente vero che l’Italia non aveva aggiornato il piano pandemico, è altrettanto vero però che un piano pandemico per quanto aggiornato non sarebbe mai potuto risultare appropriato verso il comportamento di un virus che ancor oggi mostra aspetti sconosciuti.
Per stabilire un nesso di causa in medicina, non basta identificare una causa potenzialmente in grado di produrre l’effetto in questione (aliter il mancato aggiornamento del piano come causa della diffusione epidemica), ma è assolutamente necessario dimostrare che quella carenza ipotizzata come causale, e non altro, avrebbe evitato o attenuato l’effetto. Data la novità di un virus dai tratti ancora ignoti, l’aggiornamento del piano pandemico, oltre alle generali misure di prevenzione anti contagio, null’altro di specifico avrebbe potuto aggiungere, tale da modificare il decorso dell’epidemia. E poi c’è la questione dell’esigibilità dei provvedimenti preventivi, anche se in questo caso l’obbligo di aggiornamento era fuori discussione.
(2)
Di fronte ad una infezione virale che colpisce l’apparato respiratorio, l’unico modo di evitare che tutti i pazienti finiscano in ospedale con tutte le conseguenze che ciò comporta, come tutti i protocolli internazionali recitano, è di controllare i sintomi e la saturazione di ossigeno nel sangue per capire se la situazione comporti il rischio di un rapido viraggio verso pericolose complicanze. L’uso di altri farmaci, come i cortisonici deve essere molto appropriato perché se somministrati in momenti sbagliati diventano controproducenti. Per non parlare dell’idrossiclorochina, degli antibiotici di vario tipo e altro ancora che comparivano (e forse compaiono ancora) in rete.
Cosa altro potrebbe fare un medico di base senza disporre di alcun supporto diagnostico? Quasi nulla, ma questo è proprio il grosso problema di una medicina territoriale anacronistica che non si riesce a superare perché alcune lobby si oppongono alla modifica di un ibrido contratto di lavoro per cui il medico di base (o come si dice oggi il medico di medicina generale) non è né un libero professionista né un dipendente del SSN. Quindi difficilmente inseribile in un sistema organico di monitoraggio e cura degli assistiti.
Per quanto riguarda il pronunciamento del TAR, la decisione è sostenuta da una cultura non tanto rivolta alla medicina basata sulle prove di evidenza, quanto sulla medicina basata su ricorso al cosiddetto “uso compassionevole” (D.M. 7 settembre 2017), per cui nulla si può negare al paziente se non chiaramente nocivo. Da Di Bella al caso Stamina, la storia insegna.
(3)
Certamente ci sono stati ritardi ed errori nella mancata chiusura degli ospedali bergamaschi e nell’imporre la “zona rossa”. Addirittura il prof. Crisanti ha stimato il numero dei morti evitabili. Tutto corretto. Però qui entra in discorso l’esigibilità del provvedimento. Ma quando un provvedimento diventa esigibile? Non necessariamente solo in forza di una legge, ma anche quando le conoscenze in materia sono note. Per cui la domanda diventa: all’epoca dei fatti le conoscenze sul virus, in termini di diffusività, morbilità e letalità erano sufficientemente note da esigere quel provvedimento? Affinché si stabilisca una responsabilità penale, non v’è dubbio che così deve essere. Ma questo è il punto….
Mi sembrerebbe più solido, sotto il profilo della sussistenza delle responsabilità, fare riferimento a carenze che sono perdurate nei mesi successivi, in cui pazienti dalle RSA sono continuati a transitare negli ospedali e medici ed infermieri lasciati senza adeguati DPI. Questo l’ho vissuto nel 2020 in Lombardia.
(4)
E veniamo alla pubblicazione dello studio del dott. Zambon sul sito della OMS.
Un ricercatore ha la piena facoltà e libertà di pubblicare quello che vuole. Sarà eventualmente la rivista con i suoi revisori a muovere osservazioni e critiche.
Altro è postare il proprio lavoro scientifico sul sito della Istituzione per la quale si lavora. Questa scelta, implica, come ovunque (anche dove io ho lavorato…), un passaggio gerarchico. Un diniego per quanto criticabile non può essere definito “censura” o “insabbiamento”, perché non ne viene impedita la pubblicazione ordinaria.
Chiedere quindi “la testa” del Ministro Speranza e di Ranieri Guerra, a fronte dei tanti riconoscimenti ottenuti dall’Italia per il contrasto alla pandemia, pur con tutti gli indiscutibili limiti ed errori commessi, mi pare veramente ingeneroso. Una valutazione credibile non si costruisce su di un singolo studio, ma sull’insieme di più studi convergenti, e sempre pubblicati su autorevoli riviste con impact factor. Questo si chiama il giudizio della comunità scientifica che è sempre plurale e pensiero in movimento.