Si prova a tornare alla normalità, o a qualcosa che le si avvicini, al 98° Opera Festival dell’Arena di Verona. Dopo aver fatto un mezzo miracolo l’anno scorso, per non chiudere un festival fermato finora solo dalle guerre, quest’anno si registra un ulteriore passo in avanti. Parla di “rinascita” la sovrintendente e direttore artistico Cecilia Gasdia, sottolineando le importanti collaborazioni e la voglia di tutti, dalle istituzioni a sostenitori di ogni odine e grado, di aiutare questo importante ente ad offrire prodotti di qualità.
Riecco dunque l’opera, rappresentata su un palcoscenico di fronte al pubblico (fino a ben seimila spettatori, la metà del solito, ma scusate se è poco), con l’orchestra in buca e gli artisti piazzati là dove devono stare. Si sopperisce ai limiti imposti dalla crisi sanitaria, ma anche economica, sfruttando la tecnologia e le risorse interne, che si dimostrano tutt’altro che un ripiego da poco. Ecco dunque le scenografie digitali realizzate da D-WOK, ottimamente studiate e di grande effetto, con l’intero allestimento scenico made in Fondazione Arena di Verona, affidato alla direzione di Michele Olcese. Certo i segnali che siamo ancora pienamente dentro al problema ci sono: chi può aprire bocca sulla scena sono solo i solisti, mentre il coro è piazzato sugli spalti, da dove offre la sua prestazione come si fosse in forma di concerto. Il che, volendo, giova alla precisione dell’esecuzione musicale, anche se priva la messinscena della presenza di un “personaggio”, di cui si sente solo la voce. Il deficit è in parte compensato da comparse, figuranti e danzatori, le cui mascherine di protezione ci ricordano tuttavia che questa non è ancora la normalità. Ma tanta è la voglia di opera, che dopo un po’ non ci si fa più caso, e d’altronde alla fin fine non manca nulla perché opera vera sia.
Per la precisione le opere sono due, anche se viaggiano spesso in coppia da così tanto tempo da essere ormai percepite come un’unica produzione, comunemente chiamata il “dittico verista”. Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni e Pagliacci di Ruggero Leoncavallo hanno effettivamente molto in comune. Anzitutto la brevità: sono entrambe due atti unici della durata di poco più di un’ora ciascuno. Entrambe hanno i tratti più tipici del verismo e dell’opera verista: le vicende tratte dalla vita quotidiana di personaggi delle classi sociali povere, con le loro passioni incontrollabili, l’aspetto folcloristico e soprattutto lo stile di canto che sfrutta appieno le potenzialità espressive, fino anche all’eccesso, della voce. Servono pertanto voci robuste, che nell’occasione non sono mancate.

Pagliacci – 98° Arena Opera Festival – Foto Ennevi
Cominciando da Cavalleria rusticana, va sottolineata la buona prova delle interpreti femminili Sonia Ganassi (Santuzza), Agostina Smimmero (Lucia) e Clarissa Leonardi (Lola), nonché quelle di Murat Karahan (Turiddu) e di Amartuvshin Enkhbat, baritono più volte apprezzato a Verona, evidentemente a suo agio anche in ruoli non verdiani. Quest’ultimo ha poi fatto “un dritto” (si fa per dire, visti i ben trentacinque minuti di intervallo tra le due opere, senza significativi cambi di scena), ben figurando anche in Pagliacci, nel ruolo di Tonio. Qui gli ha dato man forte Mario Cassi, nei panni di Silvio, altro baritono ma di differente timbro e ugualmente apprezzabile. Yusif Eyvazov ha tenuto bene la difficile parte di Canio, nonostante alcune disomogeneità timbriche sulle vocali aperte. Adeguata Marina Rebeka nel ruolo di Nedda e apprezzabili i comprimari, a cominciare da Riccardo Rados (Peppe), quindi Max René Cosotti e Dario Giorgelè (contadini).
Scenicamente l’integrazione di proiezioni e movimenti scenici ha funzionato bene in entrambi i casi, rendendo in maniera efficace tanto le tinte cupe di Cavalleria che la colorata vivacità di Pagliacci. Mentre la scelta per Cavalleria si mantiene nell’ambito della tradizione, con la rappresentazione un po’ di maniera di un Sud Italia retrogrado, per quanto riguarda Pagliacci il chiaro riferimento è alla produzione felliniana e in particolare al film La Strada, con il quale l’opera di Leoncavallo ha evidenti tratti comuni. Tornando all’aspetto musicale e detto della buona prova del coro diretto da Vito Lombardi, cui si aggiunge quella del Coro di Voci Bianche A.LI.VE. diretto da Paolo Facincani, va sottolineata la prova convincente dell’orchestra, che il Maestro Marco Armiliato ha ben condotto in un’apprezzata lettura delle intere due opere, esaltandosi nelle ampie e illuminate pagine strumentali, specialmente di Cavalleria rusticana.
Paolo Corsi