Meno di un mese fa, agli inizi di maggio, l’Italia guardava da lontano lo scontro israelo-palestinese. Oggi quei bombardamenti sui civili, i palazzi divelti, le vite spezzate ci sembrano distanti, passate. Da tempo abbiamo accolto la cultura dell’annientamento e della distruzione permanente, o forse ci siamo solo arresi a lei: tanto più sono distanti gli eventi e meno sembrano colpirci, si tende quasi a reputarli atti di normale amministrazione. Ma quali sono gli effetti di tale cultura sulla vita quotidiana e sul processo creativo? La galleria Studio la Città, situata nel centro di Verona, tenta abilmente di indagare su questa influenza partendo da un artista libanese, Abed Al Kadiri, e culmina con la mostra collettiva I am one acquainted with the night, inaugurata il 5 giugno e visitabile fino al 25 settembre 2021.
Il 27 luglio 2020 la Galerie Tanit, situata a Beirut, aveva appena inaugurato la mostra Remains of the last red rose di Al Kadiri; la galleria è situata nella zona del porto, ed è proprio l’area che pochi giorni dopo, il 4 agosto, è stata coinvolta in una terribile esplosione generata da un deposito di nitrato d’ammonio confiscato. L’evento conta più di 220 morti e oltre 7000 feriti, innumerevoli anche i danni ambientali e alle strutture: parte del litorale della città è stato cancellato, uno dei più grandi silo per il grano divelto, tre ospedali distrutti e due danneggiati, la maggioranza degli hotel della città e alcune ambasciate danneggiate. Della galleria Tanit rimane in piedi un solo muro, le opere esposte irrecuperabili.
I am one acquainted with the night è una collaborazione tra Studio la Città e Galerie Tanit, la quale ha offerto di esporre a Verona le opere conservate nei propri archivi, e intende riflettere sul tema della solidarietà e della resilienza. Il titolo è preso in prestito da una poesia di Robert Frost: dichiara la familiarità con il buio per permettere alla luce di tornare attraverso il lavoro di 15 artisti. La mostra si inserisce in un programma iniziato ad aprile 2021 con la mostra Today I would like to be a Tree, all’interno della quale erano esposti i disegni a carboncino di Al Kadiri, venduti per finanziare la ricostruzione degli edifici distrutti dall’esplosione al porto di Beirut.
Ad introdurre le opere dei 15 artisti troviamo una side exhibit di omaggio al fotografo Gabriele Basilico. Questa piccola esposizione si compone di alcuni scatti fatti a Beirut nel 1991 dall’artista, nell’ambito della missione fotografica coordinata dalla scrittrice libanese Dominique Eddé e richiesta dalla Fondazione Hariri per registrare lo stato della città libanese, e dal docu-film Beyrouth centre ville, 1991 di Tanino Musso, all’epoca operatore RAI, girato come diario della spedizione. Queste opere aiutano sicuramente il visitatore ad entrare nella prospettiva più ampia di I am one acquainted with the night, immergendolo in un ambiente distrutto ma mai morto, vivissimo invece di persone, tradizioni e traffico, immagini che sembrano rimarcare la fortissima volontà di ricostruire dalle macerie (sia fisiche che simboliche) e di tornare alla normalità.
La mostra principale attualmente espone le opere di Adel Abidin, Shirin Abu Shaqra, Sadik Kwaish Alfraji, Abed Al Kadiri, Nadim Asfar, Jean Boghossian, Roy Dib, Simone Fattal, Chafa Ghaddar, Gilbert Hage, Rania Matar, Randa Mirza, Kevork Mourad, Ghassan Zard, Cynthia Zaven. Questi artisti cercano di tradurre su un piano artistico le testimonianze della distruzione che i loro paesi hanno subito negli ultimi quattro decenni, lo fanno interrogando i luoghi della memoria, dell’incoscienza e dei meccanismi di difesa. Questi artisti non solo descrivono una certa realtà, ma le resistono e la trasformano con le loro opere, guidando il visitatore per mano sia in spazi estremamente intimi che in luoghi sperduti e distanti ma mai illesi. Di seguito l’analisi di alcune opere presenti in esposizione.
Nyctophilia di Abed al Kadiri è senza dubbio uno dei pezzi forti dell’esposizione, il soggetto ricorda i paesaggi selvaggi e incontaminati delle opere di Henry Rousseau detto «il Doganiere», il disegno tuttavia è caratterizzato da tratti sprezzanti affiancati alla delicatezza nella riproduzione della figura umana. Il colore qui non scompare, viene letteralmente mangiato da un nero intenso, ansiogeno, incerto. Proprio nell’incertezza vive quest’opera, volutamente incompleta per simboleggiare il sonno degli insonni.
Attraente, per imponenza e soggetto, anche l’opera di Kevrok Mourad: Strata of Memory II. Sembrano evidenti le influenze per soggetto e composizione di alcune opere come Guernica di Picasso, il Giardino delle delizie di Bosch e La torre di Babele di Bruegel. Notevole la costruzione tridimensionale dell’opera che dà vita ad uno scenario al limite dell’apocalittico, a metà fra l’essere simbolico e il rappresentare la realtà di molte situazioni di conflitto. Mourad lavora direttamente sul bianco e nero della carta da giornale, del disegno e dei rapidi schizzi, spruzzando la vernice spremuta da una piccola bottiglia in linee espressive utilizzando il dito o il pennello per realizzare una sorta di reportage simbolista.
In esposizione troviamo alcune opere di manipolazione fotografica raccolte in Parallel Universes and Beiroutopia di Randa Mirza. La manipolazione è fatta magistralmente, ad uno sguardo rapido e disattento le immagini sembrano semplici fotografie, lasciando però nella mente dello spettatore un dubbio, come se qualcosa fosse fuori posto. Il lavoro dell’artista stupisce soprattutto per gli enormi contrasti che mette in scena, cercando di destabilizzare lo spettatore con rappresentazioni surreali. L’artista si concentra sull’oggetto di culto della fotografia di guerra usato come strumento politico ma anche d’intrattenimento delle masse e, un po’ come l’intrusione di questi “universi paralleli” di svago negli scenari di guerra, sembra che l’artista faccia scivolare nel nostro “universo” una riflessione sul ruolo dell’occidente nei conflitti medio-orientali.
Nadim Asfar è presente con una parte dell’opera fotografica Experience of the Mountain in cui il paesaggio è vissuto come elemento di identificazione nazionale. Gli scatti sono accompagnati da alcuni testi di riflessione dell’artista e toccano temi come l’impossibilità dell’uomo di una manipolazione totale degli elementi naturali, il senso di inadeguatezza di fronte ai paesaggi di territori strappati o rubati, lo scopo della fotografia nella vita dell’artista e il ruolo della figura umana nella sua concezione fotografica. L’opera è visivamente accattivante nella sua semplicità, si tratta di un leporello continuo ai cui margini sono fissati dei piccoli fogli di carta con le varie riflessioni. Concettualmente ci si ritrova in viaggio sulle montagne insieme all’artista che condivide con lo spettatore ciò che egli pensa durante il tragitto, raccontate come delle epifanie improvvise durante la visione dei magnifici luoghi del Monte Hermon, al confine fra il Libano e la Siria.
Abbiamo avuto l’occasione di parlare con Asfar: «Ho vissuto in maniera particolare la genesi di quest’opera perché il luogo che ho fotografato non era accessibile da tempo in quanto occupato da gruppi ribelli o da forze dell’esercito. Quando sono stato lì, per questa serie di scatti, mi sono sentito molto a disagio, fuori luogo e quasi assoggettato nonostante la totale assenza di persone in quei momenti. Questa sensazione credo sia dovuta al sapere che quella terra non appartiene più al mio paese, è come se mi avessero strappato qualcosa. Questa serie di scatti è stata per me uno spunto di riflessione sulla fotografia, sul rapporto che l’uomo ha con la natura e soprattutto di come l’uomo possa influenzare il suo modo di vivere la natura tramite la politica e la guerra».
Michael Campo

Michael Campo è nato a Verona nel 1994. Diplomato all'Istituto d'Arte "N.Nani" e laureato in Scienze della Comunicazione all'Università di Verona. Da sempre sono affascinato dal mondo dell'arte e della cultura in ogni sua forma e mi piace parlarne per avvicinare quante più persone a questi ambiti. Le mie passioni "nascoste" sono i videogiochi e il lavoro che sta dietro alla loro realizzazione, dalla programmazione alla realizzazione artistica. Sono fortemente convinto che il giornalismo debba avere valenza sociale e aiutare le comunità a mettersi in discussione per migliorarsi, senza mai scadere in critiche gratuite, e dovrebbe aiutare i lettori a decifrare il complesso flusso di informazioni a cui siamo esposti ogni giorno. Attualmente partecipo all'iniziativa "Reporter di quartiere" di Verona In per la zona di Borgo Roma. michaelfield9419@gmail.com
