INTERVISTA – L’iniziativa “Adotta uno scrittore”, sostenuta dall’associazione delle fondazioni di origine bancaria del Piemonte e promossa dal Salone Internazionale del Libro di Torino, anche quest’anno ha scelto di coinvolgere nei propri progetti il mondo carcerario. Il 1, 3 e 7 dicembre 2020 si sono tenuti gli incontri alla Casa circondariale di Montorio con lo scrittore Fulvio Ervas, autore veneto tra le cui numerose pubblicazioni ricordiamo Se ti abbraccio non aver paura (2012) in cui racconta l’avventuroso viaggio di Franco e Andrea Antonello, padre e figlio affetto da autismo.
Facciamo un viaggio a ritroso, partendo da quest’ultimo progetto per capire in profondità e senza retorica tutte le sfaccettature della scuola in carcere, accompagnati da Nicoletta Morbioli, dirigente del CPIA (Centro provinciale per l’istruzione agli adulti) e da Paola Tacchella, docente da 30 anni nel mondo carcerario.
– Partiamo dunque dall’iniziativa “Adotta uno scrittore”: un progetto di lettura, momenti di condivisione e incontri… com’è stato possibile tutto questo alla Casa circondariale di Montorio?
Tacchella. «È frutto di un lungo percorso di lavoro e progettualità scolastica e culturale che stiamo coltivando da anni. Finalmente nel 2019, attraverso il CESP – Rete delle Scuole Ristrette, le nostre attività scolastiche sono uscite dalle mura cittadine e sono approdate a Matera, Capitale Europea della Cultura, dove è stato presentato il laboratorio teatrale con protagoniste le donne detenute. Da lì poi il viaggio è proseguito e siamo arrivati al Salone del Libro di Torino che ci ha invitato a partecipare all’iniziativa “Adotta uno scrittore”.
Il primo incontro con Fulvio Ervas è stato incentrato sul libro Se ti abbraccio non aver paura, il secondo è stato un momento di riflessione sullo scrivere, Il terzo incontro si è focalizzato sul “cosa facciamo”, idea e volontà di costruire una storia di natale, elaborata attraverso le scritture dei detenuti che hanno partecipato al laboratorio».
Morbioli.
«Nonostante l’emergenza sanitaria, siamo una delle due realtà nazionali che sono riuscite (l’altra è al carcere dell’Ucciardone, che è un istituto penale) a realizzare gli incontri in presenza, fondamentale per garantire il valore del confronto. Non è stata una cosa facile, ma ci siamo riusciti anche grazie all’appoggio della direttrice del carcere Maria Grazia Bregoli e alla disponibilità dello scrittore Fulvio Ervas, che fin da subito ha dimostrato un’attenta e sensibile partecipazione al progetto».
– Qualcuno potrebbe pensare che iniziative come queste siano “opportunità non meritate” che cosa rispondete?
Morbioli. «Chi pensa questo, secondo me non ha fiducia nella capacità formativa della scuola né in carcere né fuori; ancora oggi purtroppo si sottovaluta il potere dell’istruzione e della cultura come strumento di stabilità sociale e questo è davvero un grande errore».
Tacchella. «Soprattutto chi ha commesso reati ha maggiormente bisogno di coltivare la cultura. Leggere è vivere altre vite e permette di uscire dal proprio egocentrismo; aiuta a superare il vittimismo favorendo un percorso di crescita interiore e di consapevolezza di sé e degli altri. La lettura partecipata è un’esperienza costruttiva a maggior ragione per una persona in carcere, che ha limitate possibilità di confronto. La cultura è una forma di investimento per favorire un’evoluzione della persona i cui cambiamenti concreti si vedono già all’interno del carcere».
– Lei insegna a studenti o a detenuti?
Tacchella. «La prima cosa che dovrebbe fare un insegnante quando entra in classe, e non solo in carcere, è liberarsi dai pregiudizi, perché il condizionamento non permette mai di compiere il proprio lavoro in libertà e con onestà. Questo non significa chiudere gli occhi e far finta di niente, so benissimo che ho di fronte persone che nel passato hanno compiuto azioni anche gravi, ma so che io sono lì per insegnare e che il mio ruolo è quello di trasmettere loro conoscenze, una “cassetta degli attrezzi utili” per rientrare in società diversi da come sono entrati in carcere. Io mi occupo di alfabetizzazione e mi è capitato di avere in classe persone che sono in Italia da tanti anni e che non sanno ancora parlare la nostra lingua; come si fa quindi a parlare di inclusione se non si è in grado di esprimere cittadinanza attiva? L’istruzione è un diritto, non è una concessione al merito».».

Paola Tacchella (insegnante in carcere), Fulvio Ervas (scrittore), Nicoletta Morbioli (Dirigente scolatisca), Anna Corsini (insegnante in carcere)
– Che tipo di scuola è quella in una casa circondariale?
Morbioli. «È un’esperienza di confronto complessa. Questo tipo di struttura carceraria ospita persone in attesa di giudizio e quelle condannate a pene inferiori ai cinque anni, questo significa dover creare una progettualità in continuo cambiamento a causa dell’alternarsi delle persone. Negli ultimi anni si è lavorato molto su questo aspetto grazie anche alla lungimirante attività della direttrice del carcere Maria Grazia Bregoli, che crede fermamente nel progetto educativo della scuola».
Tacchella. «In una struttura come questa la tensione è sempre palpabile, l’attesa del domani accompagna le giornate e condiziona tutte le attività. Gli equilibri sono precari, basta il cambio di un compagno di cella per destabilizzare un’intera classe. Per un insegnante è una forma di allenamento quotidiano continuo, che ti fa capire che non ci sono persone sbagliate, ma situazioni diverse da affrontare quotidianamente».
– Qualcuno definisce il suo lavoro come una “missione”, per la passione e l’impegno che ci mette ma è corretto definirlo così?
Tacchella. «Non è una missione è un lavoro, anche se c’è tanta passione e impegno. Chiamare le cose con il loro nome aiuta a dare una corretta connotazione e un giusto riconoscimento sociale a quello che facciamo, altrimenti può diventare un alibi per chi pensa che la scuola in carcere sia un passatempo e il tutto si esaurisca dentro una cella. L’attestato rilasciato dalla scuola in carcere è istruzione dell’adulto e ha lo stesso valore di una licenza o diploma presi fuori. L’insegnante che lavora in carcere deve avere delle competenze specifiche, si viene percepiti come un punto di riferimento; è necessario non sottovalutare nulla, deve anche saper definire dei confini ben precisi e trasmettere il senso delle regole, a partire da quelle scolastiche. La scuola non è solo un trasmettitore, fornisce strumenti e apre visioni, allarga gli spazi di costruzione ai futuri possibili. Questo non significa certo essere un benefattore, significa compiere il proprio lavoro con professionalità; è sempre e costantemente una questione di equilibrio per non cadere nell’errore del buonismo o non rimanere nella rigidità».
– Che valore sociale ha la scuola in carcere e perché è un’opportunità anche per chi sta fuori e non solo per chi sta dentro?
Morbioli. «La scuola non ha un marchio di fabbrica, l’attestato rilasciato in carcere è spendibile fuori e permette di avere una possibilità di scelta che magari prima non era neanche immaginabile. Questo va a vantaggio di tutta la comunità, che ritrova un individuo potenzialmente cambiato. Avere la presunzione di essere infallibili a volte ci porta a pensare che a noi non possa succedere nulla del genere, ma in realtà il confine tra “giusto e sbagliato” talvolta è molto labile, per questo collaboriamo e manteniamo i contatti anche con le scuole superiori, perché i ragazzi possano riflettere e maturare sulla consapevolezza che ogni individuo può sempre scegliere e che le nostre azioni hanno sempre delle conseguenze. Non basta dire che l’istruzione è importante, bisogna crederci veramente».
Marta Morbioli

Marta Morbioli, veronese, laureata in Filologia Italiana presso la Facoltà di Lettere di Verona, specializzata in libri antichi con un Master in Storia e tecnica dell’editoria antica. Da sempre vive vite parallele tra la passione per la storia e le sue fonti e il lavoro come knowledge management. Il suo obiettivo è sfidare le leggi della matematica e far incontrare le due strade.

Alessandro Nobis
31/12/2020 at 18:56
Un bel articolo. Grazie dello spazio che date al CPIA.
Marcello Toffalini
31/12/2020 at 15:53
Grazie Marta per il suo proficuo lavoro di cercare di rappresentare questo mondo sommerso, che però è parte del nostro mondo e tanto fatica a riprendere la dignità che meriterebbe. Essere limitati e confinati non significa perdere i diritti umani e di cittadinanza, come spesso accade. Quanto alla Scuola, essa rappresenta a mio parere il canale principale per il riaffioramento e l’esercizio di quei diritti. Grazie e buon lavoro.