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Il mito della mascherina, feticcio e ciuccio per adulti

Un dispositivo per togliere ansia, dare sicurezza e continuare come prima, invece di tracciare i limiti entro i quali muoverci. Non sarà la Terra a morire per prima, ma i tecno-sauri

Un dispositivo per togliere ansia, dare sicurezza e continuare come prima, invece di tracciare i limiti entro i quali muoverci. Non sarà la Terra a morire per prima, ma i tecno-sauri.

“Aprire o non-aprire”, questo il dilemma che scuote popolazioni e rappresentanze politiche. Sui due piatti della bilancia stanno il rischio per la salute da una parte e il rischio di débâcle economica dall’altra che a propria volta riverberebbe sulla prima. Morire di Coronavirus o morire di fame, semplifica qualcuno, dal momento che molti altri Paesi europei premono per aprire tutto e subito, anche quel poco che hanno chiuso, allo scopo di approfittare della situazione e schiacciare la concorrenza dei pusillanimi. Non è proprio l’Europa di Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, ma così è il mercato libero e selvaggio che gli stessi governanti dei Paesi europei faticano a tener a bada, per non parlare di quanto accade oltre l’Atlantico e oltre il Caucaso. Hic sunt leones.

Non è certamente semplice trovare l’equilibrio per non morire, in mezzo allo starnazzare delle opposizioni sovraniste, paradossalmente alleate con i governi dei Paesi che più spingono per affossare l’Italia. Indubbiamente si tratta di scegliere il male minore, ma sempre di male trattasi. Sarebbe molto ipocrita non ammettere tale evidenza e non decidere, alla luce di questa, quanto e come disallineare i piatti della bilancia, cioè a quanta salute rinunciare per poter vivere, pur assecondando il giogo di un sistema globale che non ci concede pausa di riflessione alcuna.

Lo facciamo già per garantire tante attività umane: il trasporto stradale con 1500 morti/anno, il lavoro con 600, il fumo con 80 mila, l’alcol con 40 mila, la combustione dei fossili con 80 mila e altri 60 mila per dieta incongrua. E non per questo rinunciamo a viaggiare, a lavorare e ai nostri piccoli piaceri della vita.

A differenza degli ormai 30 mila morti da Coronavirus che, concentrandosi in poco meno di 2 mesi, hanno intasato ospedali, inceneritori e cimiteri assurgendo agli onori della cronaca quotidiana, questi altri, diluendosi invece silenziosamente durante l’intero l’anno per confondersi con il tragico destino dei mortali, hanno acquisito honoris causa lo statuto di “normalità”.

Ammettere però di dover vivere con una bilancia così squilibrata per garantire produzione e consumo di beni che tanti sacrifici umani richiedono d’immolare, non ci piace, turba le coscienze, o comunque quel poco che di queste è rimasto, e allora ecco la grande rimozione collettiva che ci fa dire che la salute, o meglio la vita, non ha prezzo. Invece ce l’ha, eccome, basta chiedere alle assicurazioni.

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E allora bisogna esorcizzare questo non-detto, questo tabù che incombe. Come fare? Spesso con i luoghi comuni, con la chiacchiera vana. A volte con dei feticci, nel significato freudiano di “sostituto”. Oggi al tempo del Coronavirus, il feticcio è “la mascherina”, non dipende di quale fattura ed efficienza sia, l’importante è la difesa percepita che ci garantisce. Una difesa magica dall’alieno, sopraggiunto dal nulla a distruggere i nostri bei sogni, ma che, proprio in virtù della sua magia, ci consentirebbe di vivere e lavorare come prima, con poco sacrificio, affinché nulla cambi.

Questa è la delirante illusione di tanti governatori che vorrebbero beffare la biologia e la microbiologia con un infantile stratagemma, una sorta di “ciuccio per adulti”, in grado di togliere ansia ed infondere sicurezza. S’indossa la mascherina e via andare, tutto ritorna come prima.

Peccato però che il Coronavirus, e molti virus in generale, abbiamo un diametro 600 volte più piccolo di un capello, in grado di attraversare tranquillamente il filtro di tante mascherine, se non addirittura di by-passarlo infilandosi comodamente nel lasco delle aderenze. E non parliamo dei guanti, soprattutto quando non sono monouso e non forniti in ingresso dal negozio. Pensiamo veramente che la quasi sterilità all’interno di una sala operatoria sia affidata alla mascherina del chirurgo e non da un complesso sistema di flussi laminari dell’aria garantiti da impianti ad alta tecnologia?

Coronavirus

Ma allora non serve mai la mascherina di qualsiasi tipo sia? No, serve, ma è una cosa molto seria, da portare e gestire con estrema cura per limitati periodi di tempo, a complemento, e non certo a surroga, di un’organizzazione rigorosa e sofisticata della sicurezza in ambienti sanitari dedicati. Fuori da qui la mascherina chirurgica, o ad essa assimilabile, serve soltanto per evitare di essere reciprocamente raggiunti dagli umori di chi ci starnuta o ci tossisce addosso in ambienti affollati o dove la distanza di sicurezza è impossibile. Ma non oltre, diversamente va bene per pulirsi gli occhiali. Negarlo è mistificante.

Quello che quindi conta è evitare il sovraffollamento in luoghi chiusi, garantire il distanziamento fisico, lavarsi bene e spesso le mani, piuttosto che indo­ssare guanti (magari riciclati), in attesa che si attenui il picco epidemico.

Fortunatamente il Coronavirus è molto sensibile alla luce e al secco, condizioni che danneggiano facilmente il suo rivestimento lipoproteico, l’arpione con cui aggredisce le nostre cellule. Quindi anche quando raggiunge distanze ragguardevoli, o permane a lungo sulle superfici inerti, non è più attivo, e, anche se in parte lo fosse, necessiterebbe di una minima concentrazione, la cosiddetta carica virale, per essere in grado di produrre un’infezione. La sua trasmissione da persona a persona si è verificata nella stragrande maggioranza dei casi per contatti diretti molto stretti, facili da evitare in alcune situazioni, impossibili forse in altre.

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Da questa consapevolezza e coraggiosa rinuncia all’ipocrisia bisogna ripartire, per tracciare dei limiti, all’uscita dalla clausura, che siano scientificamente solidi, ma soprattutto in grado di accogliere l’idea che la nostra vita deve accettare un ulteriore rischio per proseguire il proprio percorso e magari rifiutarne tanti altri, perché nell’immediato alternativa non è data.

Le indagini campionarie sierologiche condotte nella popolazione per ricercare gli anticorpi anti-Covid19 servono soltanto a verificare la proporzione di soggetti che hanno già sviluppato l’immunità, capire quindi quanto siamo ancora vicini o distanti dall’effetto gregge che proteggerà anche chi non è o non può essere immune.

Siamo chiamati però all’ulteriore consapevolezza che attualmente non è ancora nota la persistenza dell’immunità quando raggiunta, come anche la durata della negatività del tampone che per definizione è soltanto un’istantanea della presenza/assenza dell’infezione e quindi della contagiosità del soggetto positivo al tampone.

Nessuna “patente “ di assenza di pericolo per sé e per gli altri è quindi all’orizzonte. Diffidiamo da ogni canto delle Sirene. Ma soprattutto, quando arriverà il vaccino, facciamoci trovare un po’ più critici verso questo mondo che abbiamo trattato come una qualsiasi merce usa e getta, nella presunzione adamitica di possedere l’onnipotenza divina. Ma il rapporto di forze è invertito. Non sarà la Terra a morire per prima, ma gli uomini, gli animali più grossi, i tecno-sauri.

Paolo Ricci

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Written By

Paolo Ricci, nato e residente a Verona, è un medico epidemiologo già direttore dell’Osservatorio Epidemiologico dell’Agenzia di Tutela della Salute delle province di Mantova e Cremona e già professore a contratto presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia in materie di sanità pubblica. Suo interesse particolare lo studio dei rischi ambientali per la salute negli ambienti di vita e di lavoro, con specifico riferimento alle patologie oncologiche, croniche ed agli eventi avversi della riproduzione. E’ autore/coautore di numerose pubblicazioni scientifiche anche su autorevoli riviste internazionali. Attualmente continua a collaborare con l’Istituto Superiore di Sanità per il Progetto pluriennale Sentieri che monitora lo stato di salute dei siti contaminati d’interesse nazionale (SIN) e, in qualità di consulente tecnico, con alcune Procure Generali della Repubblica in tema di amianto e tumori. corinna.paolo@gmail.com

4 Comments

4 Comments

  1. Claudio Toffalini

    01/05/2020 at 10:32

    Ottimo articolo, però, se mi è permesso… Fra le righe si nota un sottile intreccio fra scienza e polemica politica che non fa mai bene. O l’una o l’altra. Perchè ci ricordiamo bene il “siamo prontissimi” del premier, salvo poi non preparare le strutture adeguatamente e farsi beffare da un virus che circolava già da oltre un mese. E poi quel balbettio confuso e contraddittorio sulle mascherine: si, no, forse, ma, che poi si è capito era solo per coprire il fatto che non si trovavano. Grande fiducia nella scienza, ma evitiamo di confondere gli argomenti.

    • paolo ricci

      01/05/2020 at 15:05

      Grazie sia per l’apprezzamento che per l’osservazione critica. Provo a rispondere.
      Sull’intreccio tra scienza e politica c’è un’ampia letteratura che in effetti meriterebbe un articolo per Verona in….
      Tuttavia, il mio riferimento non era tanto rivolto ai bisticci della politica nazionale, quanto all’impatto che questa esercita negativamente sull’assetto europeo, l’unico che, nonostante tutto, ci potrebbe consentire di trovare una via d’uscita, per questo e per altro.
      Sull’uso diffuso e ubiquitario delle mascherine, la stragrande maggioranza dei ricercatori è sempre stata molto scettica per mancanza di evidenze scientifiche sulla loro effettiva efficacia, ma alla fine ha ceduto alle pressioni della politica che ha voluto appunto dare almeno “il ciuccio”. All’inizio quindi non si pensava alla necessità di rifornimenti massivi di mascherine che sono sempre stato un vezzo orientale come in occidente lo è stato il cappello per molto tempo. Diverso ovviamente l’impiego dei DPI mirato agli ambienti sanitari.

  2. Redazione2

    30/04/2020 at 20:00

    E non parliamo del trasporto pubblico in relazione alle scuole, con mezzi che normalmente scoppiano di studenti provenienti da ogni parte della provincia. È non credo che possiamo ignorare oggi questo problema pensando che a settembre tutto sarà risolto.

  3. Giorgio Massignan

    30/04/2020 at 19:51

    Lunedì 4 maggio ci sarà una prima apertura e riguarderà anche, o soprattutto, i settori lavorativi. A tale riguardo pongo una questione: considerando che l’antico rapporto casa-bottega ormai è inesistente e che la maggior parte dei lavoratori dovranno spostarsi dalla propria abitazione ai posti di lavoro; chi non userà il proprio mezzo privato, dovrà utilizzare quello pubblico, treno, metrò, bus o altro. Ma per mantenere le distanze di sicurezza, pare che la capacità dei mezzi sia del 10%. Valutando l’affollamento dei mezzi pubblici nelle ore di punta, mi chiedo come sarà possibile effettuare i trasporti. Aggiungo che, anche l’uso eccessivo dell’automobile privata, procurerà grossi intasamenti, per l’insufficienza delle infrastrutture viabilistiche. Quello dei trasporti è un problema che andrebbe affrontato in tempo, perché rischia di bloccare le città.

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