E così se ne è andato Luis Sepúlveda, ferito a morte dal coronavirus. Questo mitico combattente civile, militante politico del nostro tempo che amava anche la poesia e poi scrivere romanzi, raccontare fiabe, fare teatro, è volato via così, rapito dal vento tossico di un maledetto contagio.
Ci ha lasciate un cantore delle donne che aveva saputo osannare come passionarie, madri coraggio, fiere eroine della resistenza. Sconcerto, dolore. Non eravamo preparati all’infausto annuncio. Certi della tempra, della forza invincibile che lo contrassegnavano, si era trascurata la notizia del suo ricovero.
Ci voleva ben altro, si era pensato, per sconfiggere quest’uomo, un guerriero che per tutta la vita aveva lottato contro ogni forma di violenza, di sopruso rivolto all’umanità, al pianeta. Per la sua Terra, l’America Latina, per i diritti della sua gente in Cile, si era infatti ribellato alla dittatura di Pinochet, aveva abbracciato le armi per difendere il legittimo governo popolare di Allende, anche se questa sua forte militanza politica, che gli proveniva dallo spirito indomito dei suoi avi, gli era costata arresti, torture, esilio.
Aveva combattuto per la democrazia, la libertà, i diritti civili in Nicaragua, lavorato nel sindacato dei contadini in Ecuador per promuovere l’alfabetizzazione degli Indios. Da convinto dissidente, aveva sempre contestato il predominio del potere, la dittatura del mercato che completamente amorale, tiranneggia, emargina i ceti più deboli e depreda, all’insegna del profitto di pochi, le risorse naturali del pianeta.
Diritto al lavoro come forma di dignità e giustizia sociale e diritto alla felicità di ogni persona sono stati i capisaldi della sua visione politica orientata al buon vivere sul pianeta. Un’idea di lavoro che garantisse il fabbisogno e il rispetto degli individui e che si traducesse in un modus vivendi, in un ritmo di vita orientato alla felicità, fine ultimo dell’esistenza, come pensavano gli antichi greci.
Una valenza di felicità, illustrata nella sua conversazione con Carlo Petrini, fondatore dell’associazione Slow Food successivamente pubblicata, che nulla ha a che fare con l’accumulo delle ricchezze a scapito della sopraffazione dell’altro/a, perché consiste piuttosto nel godere delle piccole gratificazioni, delle esperienze semplici che la vita quotidianamente ci offre.
A partire dai gesti più umili, ma più significativi che abbiamo perso. Quello ad esempio del sedersi a tavola per condividere tutti insieme il pasto, un pasto semplice, fatto magari di piatti poverissimi, ma che nella loro cura di preparazione, fragranza di sapori trascinano con sé una molteplicità di storie, saperi, tradizioni.
Contro la frenesia della vita odierna, il recupero di un rito serale attorno al desco rappresenta un’occasione dunque per fermarsi, parlare della giornata trascorsa, ascoltare i figli, confrontarsi su qualche progetto. Un’idea politica di felicità improntata alla reciprocità della relazione che coltivi un rapporto di armonia con la Natura tutta, che prenda dunque le distanze dallo sfruttamento violento e irrazionale della Terra in atto oggi, che salvaguardi la proprietà di chi la abita, la lavora secondo i propri usi e costumi e che rispetti la specie animale.
Un progetto di felicità che fondi il suo sviluppo sulla trasmissione della conoscenza, del patrimonio culturale, ad opera della figura dell’insegnante al quale, secondo lo scrittore, andrebbe attribuito il massimo del riconoscimento sociale insieme al massimo della retribuzione.
Tutto questo diventa per lui vera rivoluzione. In questo momento cruciale in cui gli idoli che abbiamo eretto stanno mostrando i loro piedi di argilla, Luis Sepúlveda, con la sua vita, il suo impegno, la sua morte, è qui ad indicarci che può esistere un’altra tavola di valori per i quali valga la pena vivere, avendo così dalla propria parte, come dicono i filosofi greci, un buon demone.
Quello che tremendamente stiamo vivendo per l’irruzione di un virus si sta rovesciando in un cupo J’accuse che non possiamo più sfuggire, rivolto contro il sistema che abbiamo costruito. Rappresenta però un’opportunità per rimettere in discussione e riconfigurare quel concetto di normalità che abbiamo edificato e che ora non è più riproponibile. È in gioco la nostra sopravvivenza, riflettiamo.
Corinna Albolino

Originaria di Mantova, vive e lavora a Verona. Laureata in Filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, si è poi specializzata in scrittura autobiografica con un corso triennale presso la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari (Arezzo). In continuità con questa formazione conduce da tempo laboratori di scrittura di sé, gruppi di lettura e conversazioni filosofiche nella città. Dal 2009 collabora con il giornale Verona In. corinna.paolo@tin.it

Adriana Maculotti
24/04/2020 at 18:17
Grande Luis e grande la nostra Corinna.