C’è chi confida nel potere salvifico delle catastrofi che rimettono sempre le cose nel giusto ordine. Non sarà così…
La mia memoria comincia dagli ultimi giorni di guerra, settembre del ’43. Avevo quasi sei anni.
Nello sterrato poco distante i miei compagni tiravano calci a una palla di stracci; avrei voluto raggiungerli ma non potevo. In fila davanti al forno dovevo aspettare il mio turno per ritirare un po’ di pane e di farina e ogni tanto controllavo di avere ancora in mano le tessere annonarie. Mio padre doveva badare al suo negozio, la mamma alla sorella nata da poco, e mi avevano messo lì ad aspettare il mio turno.
Un signore dietro di me, col distintivo di ex combattente sul bavero di una giacca impolverata, colse la mia impazienza e mi mise una mano in testa: “Guaglio’, si vede che vuoi andare a giocare; e vai, dammi le tessere che la roba te la prendo io”.
Al termine delle pallonate, felice di aver perfino fatto un gol in una porta tra due sassi, me ne tornai sudato e impolverato alla coda. Non c’era più, non c’era più nessuno, e il forno era ormai chiuso. La punizione fu tremenda e mai dimenticata, alla mia famiglia sarebbero mancate tre settimane di pane e farina. Niente, in confronto a quanto sarebbe avvenuto qualche giorno dopo.
Sembrava che con l’8 settembre tutto fosse finito ma il 14, poco dopo le dieci, il cielo venne oscurato dal rombo dei cacciabombardieri angloamericani e tonnellate di bombe vennero scaricate sulla città, in particolare sul mercato a quell’ora affollatissimo. I bombardamenti continuarono per tutto il mese, lo scopo era tagliare la strada ai tedeschi in ritirata. Passarono lo stesso, mentre ad Avellino rimasero uccise oltre tremila persone, il dieci per cento di tutta la popolazione oltre a feriti e dispersi. Tra i miei familiari i morti quel giorno furono cinque, altri due più avanti.
Macerie dappertutto, si dormiva per terra sotto gli alberi, in città tornava solo qualcuno per recuperare qualcosa, non c’era da mangiare, si beveva l’acqua dal fiume quasi secco o quella marrone delle fontane pubbliche. Sui carretti tirati a mano si portavano sui prati i cadaveri e quando il mucchio saliva arrivava un prete a benedire e poi si dava fuoco con la benzina.
La nostra casa non aveva subito grandi danni, salvo un buco nel soffitto dal quale si affacciavano i figli del maresciallo Papaleo; così si decise di tornarci, ma la campagna e le notti all’aperto erano un dolce ricordo a fronte della realtà che per alcuni mesi aggredì la città.
I cadaveri che venivano fuori dalle macerie rimosse, la presenza minacciosa dei “liberatori”, i loro stupri (È nato nu criaturo è nato niro…), le violenze, i saccheggi ai negozi, la borsa nera, le vendette, qualche giustizia sommaria.
Polvere, puzza di morte, scabbia, pulci e pidocchi, melma, fragore di crolli, urla e silenzi, singhiozzi, sangue, bestemmie e preghiere, topi e scarafaggi. Questa è la guerra che io ricordo.
Oggi, invasi dal coronavirus, quella parola torna sulla bocca e nelle menti di tutti, dopo che l’abbiamo messa da parte per anni mentre mezzo mondo si scannava. Non lo so se questa contro il virus sia una guerra, e se lo è si propone con modalità nuove per le quali non siamo ancora attrezzati. Temo però di sapere come sarà il dopo.
L’inverno di quel 1943 fu un prolungamento delle bombe; tanti si ammalarono e morirono per gli stenti, reduci che tornavano mutilati nel corpo e nella mente, assenza di lavoro, poca roba da mangiare e a caro prezzo. Poi la svolta col piano Marshall: arrivarono derrate e fondi e partì la ricostruzione. Ma i soli aiuti americani non sarebbero bastati se non ci fosse stata una prorompente voglia di futuro da parte di tutti; si tiravano su i muri a mani nude, i mattoni arrivavano con le carriole, noi bambini ne portavamo due alla volta, riaprivano i negozi anche se con scaffali poveri, le aule scolastiche si animarono di bambini in piedi per la mancanza dei banchi, in pochi mesi sparirono le macerie, nelle case in riparazione tornarono l’acqua e la luce. Fu un impeto collettivo che negli anni successivi avrebbe portato al miracolo economico; la gente si aiutava, stava assieme, le radiocronache delle partite si ascoltavano dagli altoparlanti messi fuori dai bar, riprendevano cinema e teatri. Un risveglio.
Oggi, con questa “guerra” appena agli inizi, c’è chi confida nel potere salvifico delle catastrofi che rimettono sempre le cose nel giusto ordine.
Non sarà così, e i segni già si vedono; è una vera e propria guerra mondiale – nel senso che coinvolge tutto il pianeta – ma il nemico non sono gli Stati con le loro armi ma un’entità subdola e invisibile. Eppure ogni governante anziché far fronte comune va per proprio conto, ignorando la scienza ma inseguendo solo aspettative elettorali.
E c’è chi va oltre facendosi consegnare nelle proprie mani tutti i poteri in nome della lotta al virus. Giudichiamo con severità queste scelte ma non ci accorgiamo che seppure in misura diversa le stiamo subendo anche noi: amministratori con la voglia di stivali vanno oltre le disposizioni governative con le più astruse ordinanze locali giustificando le restrizioni con la motivazione “non mi ascoltano”, senza capire che se non vengono ascoltati nemmeno dai loro elettori vuol dire che sulla questione sono stati contraddittori e quindi poco credibili.
E quanti di questi provvedimenti poi – passata la buriana – verranno cancellati? La pandemia non spegnerà i suoi effetti in tempi brevi e quindi si invocherà a lungo la necessità di “ordine e disciplina” finché ci saremo assuefatti. Si pensi ai decreti sicurezza che l’attuale governo si era impegnato a revocare e invece sono ancora lì a negare diritti costituzionali.
Ma il problema non sono solo i governanti che colgono l’occasione per scelte autoritarie, ma soprattutto i tanti – troppi – che non avvertono i rischi e si infilano nella scia con un consenso acritico e la diffusione di odio e notizie false, spesso spinti e manipolati dalla sempre più diffusa condivisione di alcuni mezzi di informazione.
No, non credo che anche stavolta si realizzerà il potere salvifico della catastrofe che ci renderà migliori, diventeranno migliori solo coloro che già lo sono. Negli anni Quaranta non ci era rimasto più niente e scorgemmo la possibilità di un futuro da raggiungere seppure con fatica e sacrifici; oggi abbiamo tutto e saremo ossessionati dalla paura di perderlo e allora tutti saranno nemici da abbattere.
Prima io, e gli altri si mettano in coda.
Gianni Falcone
redazione@verona-in.it

Marcello
05/04/2020 at 20:55
Caro Gianni che magnifico quadro ci hai fatto, delle miserie che ci ha lasciato la guerra e degli sforzi per ripartire. Conservo anch’io qualche ricordo sul primo decennio del dopoguerra. Come allora l’italia seppe passare dalla Monarchia alla Repubblica, anche grazie alla Resistenza al fascismo e a quel Referendum, e si dotò di una Costituzione tra le più belle del mondo libero e democratico, così oggi, senza indulgere al cinismo o al catastrofismo, qualcosa di nuovo possiamo costruire, e ri-costruire anzi: modificando qualcosa, sulla Scuola (per una scuola di tutti) e sulla Sanità (quella pubblica ovviamente), che andranno rinforzate e ri-finanziate nell’interesse reale di tutti, soprattutto dei più poveri e dei più deboli. E sarebbe già un bel dopovirus, non credi?