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Mascherine, da cosa proteggono e per quanto tempo

Per la popolazione chi si reca si reca momentaneamente in luoghi chiusi è sufficiente la mascherina chirurgica. Per chi è in prima linea il discorso cambia, e non di poco. Protezione attiva e protezione passiva.

Mascherina gialloblu al Bar-Edicola Polis di Lungadige Re Teodorico
Mascherina gialloblu al Bar-Edicola Polis di Lungadige Re Teodorico

Ci sono diversi tipi di Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) delle vie aeree. A seconda del tipo di esposizione si devono utilizzare modelli diversi. Per la popolazione chi si reca momentaneamente in luoghi chiusi è sufficiente la mascherina chirurgica. Per chi è in prima linea il discorso cambia, e non di poco. Protezione attiva e protezione passiva.

Le mascherine, correttamente definite come Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) delle vie aeree costituiscono l’ultimo gradino della scala gerarchica della Prevenzione che quindi funziona come un sistema articolato.

Al vertice sta sempre il prendersi cura dell’ambiente.

Per le malattie infettive comparse per salto di specie, dall’animale all’uomo – a partire dallo storico caso del morbillo – l’elemento scatenante è riconducibile sempre ad una condizione critica dell’equilibrio uomo-natura. Alcuni esempi sono relativamente recenti, come l’encefalopatia spongiforme bovina (mucca pazza) nel 2000, la Sars nel 2002 e l’epidemia dell’influenza aviaria nel 2003. Se tutto viene rapidamente antropizzato, pensiamo alla foreste primarie in estinzione, l’incontro con la dimensione selvatica, in cui si annida il virus sconosciuto all’uomo che non ha ancora sviluppato alcuna reazione immunitaria, diventa sempre più probabile. Parimenti aumenta la probabilità che negli allevamenti intensivi, dove si consuma la maggior parte della produzione degli antibiotici per far sopravvivere gli animali fino alla macellazione, si selezionano batteri resistenti agli stessi antibiotici con analoghi rischi epidemici difficilmente prevedibili.

Al secondo gradino stanno i vaccini, che però non sono immediatamente disponibili. Dalla sperimentazione in laboratorio, a quella animale, fino a quella clinica controllata per arrivare poi alla produzione su scala industriale, pur comprimendo al massimo ogni tempistica, in via teorica non possono passare meno di 2 anni dall’isolamento del virus. Si pensi che normalmente l’intervallo è di almeno 10 anni. Il tempo dell’osservazione conferisce sicurezza al vaccino, non solo in termini di efficacia ma anche di assenza di effetti collaterali importanti; viceversa si accetterebbe un rischio di difficile valutazione. Inutile e pericoloso quindi stressare oltre misura la ricerca in questa direzione.

Al terzo gradino si collocano le misure organizzative che abbiamo imparato meglio a conoscere in occasione di questa epidemia: il distanziamento tra le persone, i percorsi differenziati sporco-pulito, entrata-uscita dagli ambienti, la separazione dei malati in accettazione del personale sanitario, ecc. A ruota le misure procedurali, quali il lavaggio delle mani, la pulizia degli ambienti con disinfettanti adatti.

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SMOG: RAGAZZA CON MASCHERINA

A valle di tutto questo, a chiusura della scala, stanno i DPI, nella fattispecie le mascherine che per altro non sono tutte uguali per i diversi contaminanti ambientali. Sia ben chiaro.

Le medicine che non distruggono il virus ma ne limitano soltanto l’azione auto-riproduttiva o infiammatoria, l’ospedalizzazione che tratta le complicanze, il ricovero in terapia intensiva che sostiene le funzioni vitali, vengono dopo, quando la prima linea della prevenzione ha ceduto.

I DPI utilizzati per il Coronavirus COVID-19 sono più simili a quelli utilizzati per le nanopolveri e si avvicinano molto a quelli indossati dai lavoratori per proteggersi dall’esposizione professionale all’amianto, tanto che ne condividono una tipologia costruttiva.

I DPI costituiscono un filtro che consente ovviamente il passaggio dell’aria ma ostacola la penetrazione delle particelle che questa trascina con sé (polveri sottili [PM], fibre e virus) intrappolandole nelle maglie del filtro medesimo. L’ordine di grandezza del diametro del Coronavirus che ha forma tondeggiante è abbastanza simile a quella delle fibre di amianto che si misurano in nanomètri, cioè un milionesimo di millimetro. Il suo diametro è circa 600 volte più piccolo di quello del capello. Il Coronavirus è veicolato dal liquido biologico della respirazione, che si accentua con la tosse e gli starnuti (droplets e aerosol) e quindi ciò ne favorisce la cattura da parte di tessuti idrofili, cioè che assorbono acqua, di cui sono fatte appunto le mascherine.

Questi DPI sono tanto più efficaci quanto più stretta è la maglia della loro porosità.

Il potere di filtrazione è a scalare, dal massimo (ma mai totale assicurato solo dallo scafandro) garantito con il Facciale Filtrante di Protezione 3 (FFP3), a quello con protezione 2 (FFP2), alle mascherine chirurgiche.

Attenzione però che quanto più stretta è la maglia della mascherina tanto maggiore risulta la difficoltà della respirazione che incontra resistenza e quindi la sua bassa tollerabilità. Se non si percepisce questa difficoltà, vuol dire che la maschera non è indossata correttamente, cioè ben aderente al volto ed al naso, senza lasciare fessura alcuna.

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Un uso scorretto ne annulla l’azione protettiva, così come anche il metterla e toglierla ripetutamente, magari appoggiandola al mento o al collo, con conseguente ulteriore rischio di contaminazione dell’interno della stessa mascherina con l’esito di un effetto controproducente.

Una volta indossata, meglio tenerla fino a fine turno di rischio. È la prima cosa da mettere e l’ultima da togliere per evitarne la contaminazione.

È evidente che la mascherina non dovrebbe essere riciclata, però in condizioni di carenza, piuttosto che un suo uso illimitato e maldestro, meglio lavarla con alcol denaturato, data l’alta sensibilità del Coronavirus a questo disinfettante. Mi corre l’obbligo però di puntualizzare che questa pratica non è stata accreditata ed è fondata unicamente su di una deduzione logica. Si colloca quindi in uno scenario di estrema emergenzialità.

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Esistono però due tipi di maschera FFP3 e FFP2: entrambe possono essere con o senza valvola di esalazione. Da non confondere la valvola (cerchietto di materiale plastico) con il filtro che di fatto è il tessuto stesso della maschera.

È logico che quelle con valvola rendano più agevole la respirazione, perché l’aria espirata, a differenza di quella inspirata che deve attraversare la barriera filtrante costituita dal tessuto della maschera, può uscire incontrando poca resistenza e quindi la sua tollerabilità ne risulta favorita. Però protegge se stessi e non gli altri, perché l’aria espirata potrebbe trasportare il virus se chi la indossa fosse infettato. È appropriata quindi per il personale certificato come non infetto che presta continuativamente assistenza ai malati. Realizza la cosiddetta “protezione passiva”, cioè ripara chi la indossa.

Quelle senza valvola invece garantiscono sia una buona protezione passiva, perché l’aria inspirata attraversa il filtro che una buona “protezione attiva”, cioè quella che tutela gli altri, perché l’aria espirata non esce direttamente dalla valvola senza quindi essere filtrata, ma è costretta ad attraversare in uscita la medesima barriera filtrante costituita sempre dalla maschera. Rende la respirazione più faticosa anche perché il tessuto della maschera, inumidendosi, riduce ulteriormente il diametro dei pori attraverso cui esce l’aria. Quindi è meno tollerabile e va sostituita più frequentemente.

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Le mascherine chirurgiche non garantiscono invece alcuna protezione passiva, cioè di chi le indossa, tanto che non sarebbe addirittura appropriato includerle tra i DPI, perché non difendono sé stessi a causa di una porosità troppo lasca (soprattutto quelle di bassa qualità). Difendono però discretamente gli altri dal potenziale contagio di chi la indossa, cioè possiedono “protezione attiva“.

IN SINTESI

a) Chi presta assistenza ai malati, se sicuramente non infetto, dovrebbe usare mascherine FFP3 con valvola per sopportare meglio la fatica di respirare. Nel dubbio solo mascherine FFP3 senza valvola. Lo stesso principio vale per i lavoratori esposti continuamente al pubblico, se o quando non possono garantire la distanza di sicurezza.

b) Per la popolazione generale che si reca momentaneamente in luoghi chiusi è sufficiente, ma non necessaria, la mascherina chirurgica, se si ha proprio difficoltà o timore di non mantenere la distanza di sicurezza.

c) Nessuna indicazione invece per chi sta all’aria aperta in assenza di assembramenti.

Paolo Ricci
Epidemiologo (Verona)

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Written By

Paolo Ricci, nato e residente a Verona, è un medico epidemiologo già direttore dell’Osservatorio Epidemiologico dell’Agenzia di Tutela della Salute delle province di Mantova e Cremona e già professore a contratto presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia in materie di sanità pubblica. Suo interesse particolare lo studio dei rischi ambientali per la salute negli ambienti di vita e di lavoro, con specifico riferimento alle patologie oncologiche, croniche ed agli eventi avversi della riproduzione. E’ autore/coautore di numerose pubblicazioni scientifiche anche su autorevoli riviste internazionali. Attualmente continua a collaborare con l’Istituto Superiore di Sanità per il Progetto pluriennale Sentieri che monitora lo stato di salute dei siti contaminati d’interesse nazionale (SIN) e, in qualità di consulente tecnico, con alcune Procure Generali della Repubblica in tema di amianto e tumori. corinna.paolo@gmail.com

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