«Non volava una mosca, tutti zitti, concentrati, attratti dalla tonalità oracolante della sua voce che rendeva il suo pensiero ogni volta inaudito, catturati dalla profondità e qualità dei contenuti».
Correva l’anno 1990 e decisivo si rivelò per il fiorire della mia vocazione filosofica, la partecipazione del tutto casuale ad una conferenza di Emanuele Severino nel cinema-teatro di Desenzano del Garda. Poche persone, ma molto attente alle parole del filosofo. All’epoca la filosofia non godeva di festival, non affollava piazze e teatri. Rimaneva chiusa nelle torri d’avorio degli atenei dove gli iscritti alla facoltà si contavano e fondamentale era l’esame di Teoretica con Severino.
Ad impressionarmi, rammento, non fu certo il contenuto del suo discorso, del resto molto ostico a chi per la prima volta vi si accosta, quanto la suggestione creata dal rigore di un linguaggio che alle seduzioni delle parole privilegiava l’evocazione della cogenza dell’etimo greco dei termini, il suo nitore, la sua essenzialità ed immediatezza. Se è vero dunque che tutti/e noi amiamo riconoscerci in una scuola di pensiero, in un padre, in un maestro verso il quale abbiamo patito in qualche modo una sorta di innamoramento, ebbene considero Severino il mio segna-via.
In un momento in cui la mia navicella si dibatteva in un mare in burrasca, questo incontro orientava le mie scelte di vita. E fu così che, per caso o necessità, o per il volere di un buon demone, mi ritrovai a breve, fuori tempo e fuori luogo, come una ventenne, puntualmente seduta per terra nelle aule gremite di San Sebastiano in Ca’ Foscari a Venezia.
Si andava tutti ad ascoltare Emanuele Severino che rileggendo, interrogando i testi dei poeti tragici, degli antichi filosofi greci, sfogliando pagine ingiallite e consunte dal tempo, sapeva sempre parlare di noi, del nostro mondo, esito dell’intreccio di due grandi tradizioni culturali, quella greca e quella cristiana e di noi abitatori dell’Occidente.
Non volava una mosca, tutti zitti, concentrati, attratti dalla tonalità oracolante della sua voce che rendeva il suo pensiero ogni volta inaudito, catturati dalla profondità e qualità dei contenuti, affascinati da questo filosofo che soleva rivolgersi a noi studenti con il “loro” e alla filosofia chiamandola “Signora”.
Attenti, consapevoli che avevamo la fortuna, il privilegio di seguire da vicino un grande luminare della filosofia contemporanea. Ma il corso era molto impegnativo: due ore settimanali di lezione, un’ora destinata alle obiezioni al suo pensiero, a latere la parte generale della sua speculazione curata da un professore ordinario.
A partire da una reinterpretazione degli antichi, irrompeva così la sua teoria, una costruzione logica ardua, inconfutabile che infrangeva nei suoi fondamenti una consolidata tradizione filosofica, una filosofia condannata come eresia dalla Santa Sede. Un sapere che demoliva con stringenti argomentazioni la concezione granitica dell’essere fondata sulla differenza ontologica tra una struttura immutabile ed eterna e il mondo del divenire dove gli essenti oscillano tra l’essere e il nulla.
Alla base del pensiero occidentale, secondo il filosofo, la credenza, vissuta come evidenza, del divenire di tutte le cose, il loro transitare tra l’esistenza e il nulla. Proprio perché fin dalle origini è pensata questa radicale opposizione, tutta la storia della filosofia è la volontà di salvare gli essenti dall’annientamento, la volontà che qualcosa di eterno, immutabile permanga.
L’Occidente è dunque l’avvicendarsi di grandi torri, apparati immutabili, edificati per dare un senso alla nostra contingenza, al nostro essere niente. Nell’ordine, questi baluardi consolatori sono il Divino greco, il Dio cristiano, la Soggettività moderna ed oggi la Tecnica. «La fede che il mondo è tempo, storia, divenire, cioè un emergere dal niente e un ritornarvi», questa convinzione è per Severino la “follia” che attraversa tutta la nostra storia.
In realtà, teorizza il filosofo, in assonanza con Parmenide, padre venerabile, l’essere è eterno, quello che noi esperiamo come divenire, agli estremi la nascita e la morte, non è altro che l’apparire e lo scomparire momentaneo degli enti dall’orizzonte dell’apparire. La totalità dell’essere è come la pellicola di un film, i cui fotogrammi continuano a scorrere sullo schermo restituendoci l’illusoria immagine del movimento delle cose.
Emanuele Severino, proprio con la radicalità della sua speculazione che ha osato spazzar via le categorie dominanti di vita e morte, ci ha insegnato ad essere critici, a non dare mai nulla per scontato perché filosofare è appunto ricercare, interrogare, aprire sempre nuovi scenari di pensiero.
L’opposto purtroppo di quanto oggi accade.
Corinna Albolino

Originaria di Mantova, vive e lavora a Verona. Laureata in Filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, si è poi specializzata in scrittura autobiografica con un corso triennale presso la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari (Arezzo). In continuità con questa formazione conduce da tempo laboratori di scrittura di sé, gruppi di lettura e conversazioni filosofiche nella città. Dal 2009 collabora con il giornale Verona In. corinna.paolo@tin.it

Francesco De Finetti
19/06/2020 at 02:24
Quando lo si ascolta attentamente e ci si concentra sul contenuto del suo discorso, anziché sulla “tonalità oracolante della sua voce”, ecco che la portata del suo “pensiero” viene immediatamente ridimensionata.
mario
19/02/2020 at 21:07
Qui alcune interessanti considerazioni e obiezioni alla visione filosofica proposta da Severino
https://buddhismoitalia.forumcommunity.net/?t=61533973
Miria Pericolosi
29/01/2020 at 22:03
nello scritto Corinna ha espresso tutta la sua ammirazione e “riconoscenza” per il filosofo Severino, suo “Maestro” e guida. Questa sua sentita manifestazione mi sollecita ad avvicinarmi a questo ostico pensiero, per un guidato approfondimento.