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«Quando sarò vecchio racconterò anch’io una storia ai miei figli. Di questa storia al momento conosco solo l’inizio. La fine non è stata ancora scritta». C’è questa frase sulla copertina del libro Il vento ha scritto la mia storia di Benyamin Somay, edizioni La Meridiana, giovane profugo curdo che vive e lavora a Verona da alcuni anni. É il racconto, intriso di ricordi della fanciullezza, vissuta in un piccolo villaggio del Kurdistan iraniano, ai confini con la Turchia. Ricordi dei genitori (il papà è un pastore di pecore, il nonno era agricoltore), della scuola, prima elementare poi media, del servizio militare, dei lavori (prima in una fabbrica di tappeti, poi come fornaio), nella speranza di poter costruirsi una vita decorosa nel suo paese.
Ma il destino aveva riservato un altro futuro per Ben. L’amicizia con un gruppo di giovani, ragazzi e ragazze, che (siamo nel 2010) combattono per l’indipendenza del loro popolo, nascosti sulle montagne dell’Iran, gli è fatale. Cercato dalla polizia iraniana è costretto prima a nascondersi sulle montagne, poi a fuggire verso la salvezza in Europa. É l’aprile del 2010: prima tappa la Turchia, poi la Grecia, aiutato economicamente dagli amici, per pagare i trafficanti. Un viaggio quasi sempre a piedi, attraverso paludi, risaie, fiumi, rifugiandosi in nascondigli indecorosi, privi di igiene, spesso senza mangiare.
Il “soggiorno” ad Atene è devastante: chiuso, assieme ad altri compagni di sventura, in un appartamento fatiscente (ci resta per parecchi mesi), prima di essere trasportato sulle rive dell’Adriatico da dove, su un barcone, stracolmo di altri infelici, raggiunge l’Italia, Santa Maria di Leuca in Puglia.
Qui è subito fermato dalla polizia italiana. Gli prendono le impronte, viene chiuso in un campo profughi, ma la mattina dopo, assieme ad un compagno, riesce a fuggire. In treno arriva a Milano, da qui in Francia, dove, a Monaco gli rilasciano un permesso. Ma la sua mèta è Copenaghen. Riesce ad arrivarci in treno, passando da Bruxelles, Colonia e Amburgo, viaggiando di notte, tra mille pericoli.
Finalmente la Danimarca. Ci arriva otto mesi dopo essere partito dal suo paese. Qui è accolto bene, segue un corso d’inglese ed uno per diventare guida turistica. Chiede asilo politico, come rifugiato curdo, ma in Italia ha commesso l’errore di farsi prendere le impronte digitali e candidamente lo ammette. Dopo alcuni mesi, per la convenzione di Dublino, è rispedito in Puglia.
Ma è fortunato, arriva il permesso di soggiorno, un lavoro da fornaio, ma soprattutto trova tanti amici, a cominciare da don Salvatore Leopizzi, della comunità di don Tonino Bello. Lavora per alcuni mesi anche all’isola d’Elba, poi l’arrivo a Verona, accolto da don Marco Campedelli.
Ecco, il libro finisce qui. Ma le quasi 200 pagine si leggono in un soffio. Bellissime, ma nello stesso tempo drammatiche, soprattutto quelle che raccontano la sua permanenza ad Atene. Ed alla fine ti sorge una domanda: perché i curdi, un popolo di 36 milioni di persone, non ha ancora una sua patria? Perché è continuamente perseguitato? Ha ancora una speranza questo popolo che vive tra la Turchia, l’Iran, l’Iraq, la Siria e l’Armenia? Chissà. Ben chiude il suo libro con queste parole: «Che il vento dei curdi, sapiente di tante storie, protegga tutte le persone che si sono messe in cammino e che affrontano deserti naturali e umani, la cattiveria e il grande mare, al loro fianco, ne sono certo, avranno i giusti tra le persone». Parole che fanno riflettere!
Paolo Priante
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