Anni Settanta. Abitavo a Santa Maria di Negrar e per andare a scuola (Fracastoro) prendevo la filovia rossa, la Verona-Domegliara delle 7.40, o quella delle 7.14 se dovevo scopiazzare i compiti prima di entrare in classe. Quest’ultima opzione era poi diventata la regola per motivi sentimentali. Ci saremmo baciati prima delle lezioni sulla riva del fiume, tra San Giorgio e Santo Stefano, lei in piedi sul muretto, io sul selciato.
Dalla finestra di casa, sulla collina, mia madre stava di guardia mentre io facevo colazione con latte, pavesini e bucaneve. Da lì si vedeva il biscione APT spuntare dal curvone di Pedemonte, come un puntino rosso fuoco all’orizzonte. Da quel momento, correndo all’impazzata in mezzo ai campi, avevo 3 minuti per recuperare le Muratti nascoste fra i sassi di una marogna e guadagnare la provinciale.
Raggiunto l’asfalto, con il cuore che batteva forte, osservavo l’oscillazione dei fili, in modo da calcolare con buona approssimazione la distanza della filovia, che ancora non si vedeva, e il tempo che rimaneva per percorrere gli ultimi 200 metri che mi separavano dalla fermata.
Ero un buon corridore, ma i libri pesavano e confidavo nella clemenza dell’autista che superandomi mi avrebbe poi aspettato (non sempre). Ricordo i lampi e lo sfrigolio dei fili a contatto con il pantografo nei giorni di brina. Quante storie su quella filovia…
Arrivato a San Giorgio (Verona) c’era il Bar Elia, che ereditava dal passato il nome di capolinea della Verona-Caprino. Lo chiamavamo così per la presenza paterna del titolare, che aveva sempre un occhio di riguardo per noi studenti.
In quegli anni i più anziani – quelli che avevano allora l’età che ho io oggi – mi raccontavano che prima della filovia rossa c’era il trenino, come testimoniano le bellissime stazioncine disseminate lungo i vari percorsi dalla provincia alla città.
È trascorso quasi mezzo secolo e nei pressi del Teatro Romano, tra Rigaste Redentore e Lungadige Re Teodorico, sul parapetto in pietra che dà sull’Adige è ancora visibile l’incavo dove era posizionato il palo che reggeva i fili, e mi piace sfiorarlo con le dita.
È incredibile, ma il passato, con gli opportuni adeguamenti, sembra quasi riproporsi come la situazione ideale per l’oggi.
Giorgio Montolli

L’incavo nel parapetto dove si trovava il palo che reggeva i fili della filovia (Verona).

È diventato giornalista nel 1988 dopo aver lavorato come operatore in una comunità terapeutica del CeIS (Centro Italiano di Solidarietà). Corrispondente da Negrar del giornale l'Arena, nel 1984 viene assunto a Verona Fedele come redattore. Nel 1997, dopo un periodo di formazione in editoria elettronica alla Scuola grafica salesiana, inizia l'attività in proprio con uno Studio editoriale. Nel 2003 dà vita al giornale Verona In e nel 2017 al magazine Opera Arena Magazine (chiuso nel 2020). Dal 2008 conduce il corso "Come si fa un giornale" in alcuni istituti della Scuola media superiore di Verona. giorgio.montolli@inwind.it

Maurizio Danzi
17/11/2019 at 11:22
Dire che è esistita una filovia rossa, di questi tempi in cui la memoria è uno stato d’animo, potrebbe non essere politicamente corretto. La mia era verde. Le “tirache ” però sono come le Madelaine di Proust.