“Nel presepe c’è la nostra identità. Le scuole non lo nascondano”, parole del ministro dell’Istruzione Marco Bussetti: così almeno titolava il 1° dicembre un servizio del Corriere della Sera. Una dichiarazione che appare pacata ed articolata, rilasciata con evidenti riferimenti ad una polemica emersa nel veneziano, dove una Preside si era spinta a negare un presepio, per difficoltà di budget scolastico. Il ministro sa di non potersi opporre alla scelta della preside epperò trova il modo di motivare il suo dissenso così: «Crocifisso e presepe sono simboli dei nostri valori, della nostra cultura, delle nostre tradizioni e della nostra identità. Non vedo che fastidio diano a scuola. Chi pensa che l’inclusione si faccia nascondendoli, è fuori strada».
Fa piacere scoprire l’interesse per l’inclusione scolastica e sociale da parte del ministro Bussetti, essendo ben nota da tempo la posizione della sua Lega, già Lega Nord, sui migranti economici e sui rifugiati in genere, generalmente indicati come clandestini e portatori di guai e di violenza o individui che rubano diritti e lavoro, ma tirare in campo la nostra identità è quanto meno una forzatura e una verità non universalmente riconosciuta. Sappiamo tutti, infatti, che se abbiamo una carta d’identità nazionale in cui tutti possiamo riconoscerci, anche per il debito di sangue che è costata, quella è proprio la Costituzione italiana e i suoi valori, tra cui la laicità dello Stato e delle sue Istituzioni liberali e democratiche. Massimo rispetto per la Chiesa cattolica e le sue tradizioni e rispetto del Concordato Stato-Chiesa, fintanto che resterà in vigore, ma l’esibizione di simboli cristiani nelle Istituzioni pubbliche non è un obbligo costituzionale anche se corrisponde ad una possibilità, fruibile dai cittadini e dai minori per le potenzialità educative associate. Nessuno intendeva, credo, nascondere un presepe al pubblico, o impedire di farlo, tanto meno quella preside. Un ministro della Repubblica non può non saperlo e presentare la cosa in quel modo non gli fa onore, forse solo pubblicità o, peggio ancora, solo propaganda di partito.
La tradizione del presepe nelle famiglie italiane è una bella abitudine, che come si sa si rifa a San Francesco, e che ci parla di amore, di pace, di vita che nasce nella povertà e nelle ristrettezze, in un mondo, che già allora, duemila anni fa, aveva regole di vita e riti da osservare, sottoposto ad una giurisdizione complessa (religiosa, regale, e imperiale), non tanto diversa da quella attuale dei nostri giorni. Papa Francesco, al riguardo, qualche anno fa ci invitava a riflettere così, sul presepe di piazza San Pietro e su ogni presepe: «Dio, per la sua grande misericordia, è disceso verso di noi. Egli non si impone mai con la forza. Si è fatto invece piccolo, bambino, per toccare i nostri cuori con la sua bontà umile, per scuotere con la sua povertà quanti si affannano ad accumulare i falsi tesori di questo mondo». Una lezione in stile francescano di Papa Bergoglio, otto secoli dopo il presepio vivente di San Francesco, che ha spinto il giornalista veronese Massimo Mamoli, sul Corriere di Verona del 30 novembre, a chiedersi, parlando di presepi, quale significato si assegni a quei simboli di cui si invoca l’esposizione. «Chi oggi dovrebbe essere messo dentro quel presepe se non gli ultimi del nostro tempo? E se deve avere i volti della povertà, dell’umiltà, oggi la Natività dovrebbe essere rappresentata in una grotta o in un gommone?». Parole che fanno riflettere sull’utilizzo “identitario” di simboli come la Croce, il Rosario o il Presepio da parte di formazioni politiche all’avanguardia nell’uso dei “social”, un po’ meno nell’assicurare salvezza e dignità di vita ai migranti in arrivo dai Paesi martoriati dalla fame o da conflitti “civili”, su cui l’Occidente intero non può in alcun modo ritenersi del tutto incolpevole. Della necessità di ridurre o di eliminare quel conflitto sociale e quotidiano ci potrebbe/dovrebbe parlare, tra l’altro, un presepe.
Peccato che la tradizione del presepio, che anch’io ho coltivato, da giovane e in anni più recenti da nonno, stia sempre più indebolendosi e sia oggi quasi scomparsa, frutto amaro di un certo modernismo che la considerava poco più di un’emozione o di un’anticaglia. Quanto bisogno abbiamo invece di fermarci a pensare, davanti ad un presepio, a riflettere su come uscire dall’imbuto in cui tende a comprimerci la drammatica carenza di lavoro, l’indifferenza nei rapporti umani o la crisi di progetti e di speranze sul futuro, a meditare su come uscire da codesta crisi economico-finanziaria che ci paralizza e ci spinge a chiudere le porte di casa ai poveri e ai migranti fino ad arrivare a brandire un’arma da fuoco contro di loro.
Altro che elogio “identitario” e cattolico, rosario in mano e “croce” esposta, e Dio non voglia imposta, sulla pubblica piazza o nelle Scuole: la sua Croce un cristiano la porta nel suo cuore e la vive ogni giorno come meglio può, insieme ai cittadini di buona volontà, credenti o laici che siano, al di là di ogni “fede” esibita ed impegnati soltanto a realizzare il bene comune.
Marcello Toffalini

Marcello Toffalini è nato nel 1946 ed è cresciuto nella periferia di Verona tra scuola, parrocchia e lotte sociali. Ha partecipato ai moti universitari padovani e allo sviluppo delle Scuole popolari di Verona. Si è laureato in Fisica a Padova nel 1972 e si è sposato nel 1974 con rito non concordatario. Una vita da insegnante di Matematica e Fisica presso il Liceo Fracastoro, sempre attratto da problematiche sociali e scientifiche. In pensione dal 2008. Nonno felice di tre nipotini. Altri interessi: canta tra i Musici di Santa Cecilia. ml.toffalini@alice.it
