In tema di diritti dobbiamo ammettere che persiste da moltissimi anni una terribile sottovalutazione dei diritti deii detenuti. E malgrado una massima evangelica che in terra di tradizioni cattoliche dovrebbe essere tenuta ben presente (Ero in carcere e siete venuti a trovarmi, Mt 25, 31..46), pare che raramente questo cristiano “comando” trovi realizzazione, frenato anche da motivi di opportunità o contrastato da disposizioni di sicurezza.
Insomma, dei detenuti non amiamo interessarci: ci bastano le notizie che ci arrivano dai giornali, radio e tv che raccontano di alcuni fatti che riguardano il carcere. Abbiamo appreso a gennaio che si è aperto un processo contro una ditta che per quasi un anno nel Carcere di Montorio (Verona) avrebbe somministrato ai detenuti cibo di qualità scadente e, a fine marzo, che un quartetto di detenuti, insieme agli scout, hanno permesso di ripulire e di ripristinare l’accesso ad una Galleria di contro-mina in zona San Zeno.
Ci ha rattristato apprendere che nel penitenziario di Montorio vi sarebbero cinque islamisti radicalizzati e che in Italia sarebbero ben 500 i detenuti diventati jihadisti, in carcere. Altri, molti altri, sarebbero un po’ preoccupati dal modo con cui certi “media” utilizzano la poderosa immigrazione dai Paesi più poveri o da quelli insanguinati da guerre “civili” interne (di questi ultimi dieci anni) come causa principale della micro-criminalità e causa prima d’insicurezza sociale e di violenze all’interno delle carceri. Una tesi ingiustificata e sbugiardata dalle fonti statistiche nazionali e tuttavia diffusa ed irresponsabilmente utilizzata anche nel corso delle ultime consultazioni elettorali.

Carcere di Montorio (Verona)
In realtà poco o niente conosciamo delle condizioni di vita dei concittadini detenuti, che sono sì colpevoli di reati più o meno gravi per cui hanno ben meritato la restrizione della libertà ma non sono mai stati privati degli altri diritti umani: dal diritto di pensiero e di parola al diritto di qualche forma di affettività, dal diritto alla salute e alla cultura al diritto di esprimersi in senso religioso, artistico o professionale, per citarne alcuni tra i più noti.
Provate voi a vivere venti ore al giorno in non più di tre metri quadrati, quando va bene, con una luce spesso fioca e certamente inadatta alla lettura o alla scrittura in ore serali, in condizioni di riscaldamento precarie e non condominiali, in compagnia di persone certamente non selezionate e spesso insensibili ai vostri bisogni, in celle servite da un wc e da una doccia con scarichi spesso intasati, con problemi di aerazione, d’igiene e di riservatezza sottovalutati o trascurati.
Per non parlare delle biblioteche, delle palestre o dei laboratori talvolta assenti o malridotti. Ci sono il giornale e la televisione ma le relazioni umane? Sono condizioni che favoriscono un sano ripensamento sui reati compiuti o che incattiviscono gli animi spingendoli alla recidiva nei comportamenti delittuosi.
Vi sono state, e sono in corso, importanti iniziative di apertura al contesto sociale esterno, come quelle gestite a Verona da benemerite associazioni come La Fraternità, MicroCosmo o da cooperative sociali come Progetto Riscatto, sostenute o appoggiate dalla direzione carceraria, ma rimangono spesso fiori all’occhiello per dimostrare più la benevolenza dell’istituzione carceraria verso limitate esperienze di promozione sociale di alcuni detenuti che una risposta corale e civica ai bisogni culturali e civili della maggioranza dei reclusi, per il loro pieno recupero nell’interesse loro e dell’intera società.
“Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”, scrisse una volta Dostoevskij. Ce lo ricordava anche Guido Trombetti su Repubblica un mese fa in un suo articolo da Napoli sulla necessità della riforma carceraria. Sosteneva che due sono le funzioni del carcere: quella punitiva e quella correttiva. Ma «la prima delle due deve essere funzionale e subordinata alla seconda.
Si può sostenere che la punizione ha un valore intrinseco, di pura retribuzione della colpa o di inesorabile vendetta, separato dalla finalità di recuperare il soggetto? Credo che nessuno lo pensi. Mi chiedo quindi se si possa ritenere salvaguardato l’interesse collettivo riducendo la funzione dello Stato unicamente a quella di colpire i rei con cieca determinazione. Non si rischia di trasformarla in un gelido ed ottuso meccanismo?».

Carcere Uta – Foto Roberto Pili
Parole sante: basti pensare, per accorgersene, all’altissima percentuale di detenuti che usciti dal carcere tornano a delinquere, come bene ha spiegato con ricchezza di dati Il Sole-24 ore, il 6 febbraio scorso. Se «nel 68% dei casi i detenuti nelle carceri tornano a delinquere» è evidente la grave difficoltà, il fallimento se non l’impossibilità del recupero sociale dei delinquenti. Ma di chi è la colpa se sono proprio le condizioni di vita dei detenuti che, anche a causa del sovraffollamento delle carceri, favoriscono e di certo non impediscono l’instaurarsi di rapporti violenti tra i singoli, sicuro prodromo alla recidiva una volta usciti?
Recentemente pure lo scrittore Roberto Saviano ha trovato il modo di esprimersi sulle carceri e sui carcerati condannando una politica priva di coraggio, sorda e cieca ad ogni richiesta d’aiuto che avrebbe il governo italiano: «Chiunque, a vario titolo, abbia a che fare con il carcere, detenuti e loro familiari, giuristi, avvocati, associazioni che si occupano di diritti dei detenuti, educatori, direttori e personale che lavora nei luoghi di detenzione, tutti loro e anche noi, abbiamo oggi come unico avversario comune una politica priva di coraggio e spesso anche di competenze, sorda e cieca a ogni sollecitazione, a ogni richiamo e, finanche, a ogni richiesta d’aiuto».
Non sono serviti infatti né un prodigioso sciopero della fame di oltre 10.000 detenuti, né la recente condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo per i «sistematici trattamenti inumani e degradanti», applicati nelle nostre carceri, a spingere il governo a pretendere dal Parlamento l’approvazione di un serio provvedimento di riforma del settore carcerario, per lenire le condizioni dei suoi detenuti e contribuire così a migliorare la sicurezza esterna dei cittadini.
Così continuando, il carcere non aiuta la sicurezza dei cittadini, come ha recentemente sostenuto Susanna Marietti dell’associazione Antigone, nel suo articolo del 19 aprile. Dove si legge: «Dei 57.608 detenuti al 31 dicembre scorso, solo 22.253, meno del 37%, non avevano alle spalle precedenti carcerazioni. 7.042 ne avevano addirittura un numero che spazia dalle 5 alle 9. Le misure alternative garantiscono assai di più l’abbattimento della recidiva e dunque la sicurezza della società. E costano anche assai di meno del carcere».

LSU- Lavori socialmente utili
Ma le misure alternative quali sono? L’affidamento in prova ai servizi sociali, la semilibertà, la liberazione anticipata e la detenzione domiciliare, che tendono (in forme opportunamente gestite e controllate) a realizzare la funzione rieducativa della pena, in ottemperanza dell’articolo 27 della Costituzione.
Perché la pena non deve togliere ogni libertà o essere soltanto punitiva ma puntare sempre al recupero individuale e sociale del cittadino colpito, divenuto consapevole del reato commesso ed impegnato, già nei suoi rapporti interni con gli altri detenuti, a recuperare via via la sua dignità e la sua responsabilità sociale.
Per un detenuto la possibilità di recuperare, una volta uscito, la sua dignità ed un’occupazione regolare e riconosciuta rappresenta uno stimolo decisivo ad un percorso di riscatto. In questo modo oltre a recuperare un cittadino detenuto si contribuisce realmente, e con minore spesa per la collettività, alla sicurezza sociale di tutti. Altro che “rinchiuderli e buttare la chiave” come certi populisti-identitari ci invitano a fare: è proprio il contrario che si deve perseguire.
Non li recupereremo tutti ma una buona parte sì. Un modo razionale, oltre che economico, di affrontare il rinnovamento della vita carceraria e la questione della recidiva prevede l’appoggio alle misure alternative al carcere. Pienamente d’accordo dunque con la dottoressa Marietti: «Chi vuole usare la razionalità, non può che sperare in un loro incremento».
Marcello Toffalini

Marcello Toffalini è nato nel 1946 ed è cresciuto nella periferia di Verona tra scuola, parrocchia e lotte sociali. Ha partecipato ai moti universitari padovani e allo sviluppo delle Scuole popolari di Verona. Si è laureato in Fisica a Padova nel 1972 e si è sposato nel 1974 con rito non concordatario. Una vita da insegnante di Matematica e Fisica presso il Liceo Fracastoro, sempre attratto da problematiche sociali e scientifiche. In pensione dal 2008. Nonno felice di tre nipotini. Altri interessi: canta tra i Musici di Santa Cecilia. ml.toffalini@alice.it
