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Woyzeck, alla Casa Circondariale di Montorio

Woyzeck

«Cos’è dunque in noi che mente, uccide, ruba?». Muove da questo interrogativo, dal mistero che inquieta ogni generazione di uomini, lo spettacolo Woyzeck. È la sesta rappresentazione che la Compagnia del Teatro del Montorio presenta martedì 27 marzo (alle ore 19), nella cappella della Casa Circondariale di Verona.

Il progetto. Nato nel 2014 per iniziativa della Direzione della Casa Circondariale di Verona su un progetto di Alessandro Anderloni, realizzato dall’associazione culturale Le Falìe e sostenuto fin dall’inizio dalla Fondazione San Zeno Onlus, il Teatro del Montorio ha scritto e portato in scena gli spettacoli L’attesa della neve (2014), Senza il vento (2015), Speratura (2016), Invisibili (2017), Mercanti di storie (2017). Nel carcere di Montorio il laboratorio teatrale si svolge a cadenza settimanale e ha coinvolto in quattro anni quasi cento tra detenuti e detenute appartenenti a tutte le sezioni.

Lo spettacolo. I testi della compagnia finora sono stati sempre originali e nati da un’attività di drammaturgia collettiva con gli stessi attori e attrici. Non così per il lavoro di Georg Büchner, scritto tra il 1836 e il 1837, ma rimasto incompiuto a causa della morte dello scrittore, poi dal 1913 completato da vari autori e tradotto in diverse lingue. Gli undici attori-detenuti del Teatro del Montorio si cimentano quindi per la prima volta in un classico con adattamento e regia di Alessandro Anderloni, Isabella Dilavello e Paolo Ottoboni.

«I documenti dai quali trae spunto il Woyzeck di Büchner sono reali: gli atti e le perizie psichiatriche del processo a carico dell’omicida Johann Christian Woyzeck. Il dramma, dunque, è tratto da una storia vera, ma resta in sospeso. Bisogna fare i conti con la sua incompiutezza, il suo essere frammentario, sfilacciato», anticipa il regista Anderloni. «L’autore, che morì prima di terminare il suo lavoro di scrittura, ci lascia a confrontarci con il dubbio e con l’assenza di una soluzione/assoluzione – prosegue –. Ci lascia con la vicenda di un uomo e del suo destino di follia (follia?), in mezzo ad altri uomini che sembrano non fare più caso alla propria, di follia. Ci lascia senza un giudizio o una condanna, tantomeno una giustificazione».

Nel carcere. Come non considerare le persone che lo interpretano e il luogo dove si trovano? «Fingere che “quel qualcosa” dentro di noi non esista, non fa che renderlo più evidente. È stata una sferzata, uno schiaffo, comprendere quanta necessità si avesse proprio qui, in carcere, di affrontarlo, di parlarne, magari di non prenderne pienamente coscienza – chi può dire cosa significhi trovarsi di fronte all’abisso? – eppure di metterlo in scena. Perché in carcere c’è un rumore continuo dentro la testa, un suono di tamburi e di trombe che non dà pace, che si può solo fingere di non ascoltare, ma senza mai riuscirci fino in fondo». Se la tragedia è quando gli uomini non possono in alcun modo cambiare il corso degli eventi, conclude Anderloni, «il dramma può essere evitato. Con il Woyzeck siamo di fronte a una tragedia in cui il protagonista cade per un gioco assurdo e grottesco. E se, invece, avesse chiesto aiuto?».

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