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Opinioni

Linea di confine: 16 marzo 1978

Aldo Moro

La mattina del 16 marzo 1978, giorno in cui il nuovo Governo guidato da Giulio Andreotti stava per essere presentato in Parlamento per ottenere la Fiducia, l’auto che trasportava Aldo Moro dalla sua abitazione all’Università La Sapienza fu intercettata e bloccata in via Mario Fani a Roma da un nucleo armato delle Brigate Rosse.

Sono passati quarant’anni dall’agguato di Via Fani. Aldo Moro venne rapito, gli uomini della sua scorta uccisi. Dopo cinquantacinque giorni di prigionia Moro fu “giustiziato”. Il 16 marzo 1978 segna una linea di confine: è il giorno in cui tutto è cambiato, almeno nella storia politica italiana. Tra Gladio, servizi e carte sparite ancora oggi l’Italia non conosce la verità. Abbiamo voluto ricordare quel giorno con le testimonianze della Redazione, tessere di un mosaico ancora da comporre. Chi eravamo? Cosa siamo diventati? Se lo volete, vi invitiamo a lasciare anche la vostra testimonianza attraverso un commento a questo articolo.

Giuseppe Braga. Il 16 marzo 1978, mi trovavo a Roma, in un hotel sulla via Aurelia. Partecipavo come delegato veronese ad un Consiglio Generale Straordinario per la unificazione di due Federazioni dei lavoratori Chimici della CISL. Alle 10,30 circa, il Segretario Generale Nazionale della Federchimici CISL, Domenico Trucchi, interruppe la riunione e ci comunicò che la Confederazione CISL lo aveva informato che il Viminale aveva disposto la sospensione di ogni congresso, convegno e riunione per evitare pericoli nei confronti di ogni possibile obiettivo da parte di terroristi. Non seppe aggiungere altro e ci “ordinò” di tornare nelle nostre sedi per organizzare le azioni necessarie per la difesa delle istituzioni e dello stato democratico. Con difficoltà riuscimmo a organizzare un viaggio in taxi per raggiungere la stazione di Roma Termini per il rientro, poiché era già stato proclamato lo sciopero generale di tutti i mezzi di trasporto. Giunti alla stazione verso le 11,30 venimmo a conoscenza solo in minima parte che era stata  commessa una azione terroristica, con alcune vittime. A Roma circolavano solo auto delle forze di polizia, a sirene spiegate, e moltissime ambulanze, in uno scenario irreale. Riuscimmo a prendere un treno rapido per il Brennero, ma giunti a Bologna, verso le 17, dovemmo scendere per proseguire con degli autobus sostitutivi, in quanto si erano sparse le voci di possibili ulteriori attentati lungo le linee ferroviarie. Ricordo la paura, poiché era impossibile avere notizie di ciò che era successo. Poi l’autista del bus su cui ero riuscito a salire ci aveva raccontato, preso da uno stato di notevole agitazione, quello che anche lui aveva saputo.

Luciano Butti. Non ricordo esattamente con chi ero e cosa stavo facendo. Ricordo però bene che il feroce atto terroristico – compiuto fra l’altro senza riconoscere alcun valore alla vita degli uomini della scorta (la persona umana usata “solo come mezzo”) – ha rafforzato e reso in me irreversibile una convinzione. Quella secondo la quale il terrorismo e qualsiasi violenza non hanno mai nulla – davvero nulla –  di buono, apprezzabile, o anche solo giustificabile. Insieme con il dovere morale e politico della sinistra di contrastarli con ogni mezzo legittimo e possibile, anche quando le persone colpite sono lontanissime da noi e dal nostro modo di pensare.

Gianni Falcone. Ero proprio a Roma, alla Cassa Depositi e Prestiti per stipulare un mutuo del Comune. Verso le 10 mi comunicarono che l’appuntamento era rimandato a data da destinarsi perché c’era stato un grave attentato e tutte le attività erano sospese. Altro non sapevano dire. Per le strade c’era un silenzio cupo, qualcuno riportava notizie frammentarie e incontrollate: poliziotti morti, un deputato forse ferito. Solo sul treno che mi riportava a casa, da una radiolina che riceveva qualcosa solo tenendola contro il vetro, cominciò a delinearsi la tragedia.

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Cinzia Inguanta. Frequentavo il liceo scientifico al Messedaglia, a scuola non dissero niente. Era ora di pranzo, come di consueto, ero a casa dell’amica con la quale studiavo e con la quale ho condiviso gli anni dell’adolescenza. Squillò il telefono. «È tua madre, vuole parlarti». Strano. Cosa poteva volere mia madre? «Hanno rapito Mauro…», Mauro era il mio ragazzo di allora. «Mauro?»  percepii uno scollamento con la realtà. «Ma no, cos’hai capito? Hanno rapito Moro!». Mi sembrò facesse molto freddo e un cono d’ombra oscurò quella giornata di primavera. Sono passati quarant’anni e siamo ancora dentro quel cono d’ombra.

Paola Lorenzetti. Quel giorno mi è rimasto impresso molto chiaramente. Ricordo che era una chiara giornata di sole. Stavo andando all’università a piedi e in via Rosa incrociai un gruppo di persone che stava commentando l’accaduto. Mi fermai ad ascoltare e così venni a sapere del rapimento e dell’uccisione degli uomini della scorta. Rimasi molto impressionata ma sinceramente all’epoca non mi interessavo di politica e così in un primo momento feci fatica a capire la reale portata dell’accaduto. Poi all’università il professore invece di fare lezione preferì parlare della figura di Moro, della sua opera, dei suoi valori. Ricordo tante cose di quel giorno, il profumo della primavera in arrivo, il cielo terso, i visi delle persone, il silenzio innaturale, come se tutti fossimo rimasti sospesi. Da allora la politica è diventata per me una passione.

Roma, via Fani. 16 maggio 1978. La scena della strage che portò al rapimento dell’On. Aldo Moro nella quale persero la vita gli agenti di scorta – Credits: Getty Images

Antonio Mazzei. Quel 16 marzo di otto lustri or sono era giovedì. Sull’affollato autobus numero 12 che mi portava a scuola (facevo il primo liceo classico, sezione a, del Maffei) si parlava soprattutto di Juventus – Ajax, quarti di finale dell’allora Coppa dei Campioni. I bianconeri, la sera precedente, avevano superato gli olandesi ai calci di rigore. Al ritorno a casa, dopo cinque ore di lezione, c’erano pochissimi studenti per strada e l’autobus numero 12 era quasi vuoto. Arrivato a casa scoprii il perché. Quasi tutte le scuole avevano sospeso l’attività didattica a causa di quanto accaduto a Roma dove, poco prima delle 9,  un commando delle Brigate Rosse aveva sterminato i cinque uomini che scortavano Aldo Moro e lo aveva rapito. Mio padre era al telefono con la questura. Dopo trent’anni in Polizia, era andato in pensione il 31 dicembre 1977, ma era stato comunque contattato per sapere se nella Capitale, dove aveva prestato servizio dal 1964 al 1972, aveva sentito parlare del piano zero diramato dal capo dell’Ucigos Antonio Fariello a tutte le questure italiane. Si scoprirà dopo alcune ore che questo piano era stato elaborato per la sola questura di Sassari, di cui Fariello era stato questore per alcuni anni. La situazione dell’ordine e della sicurezza pubblica nell’Italia del 1978 era dunque questa: improvvisazione, incompetenza, inadeguatezza degli apparati che la coscienza sporca della nostra Repubblica indennizzava con 10.000 lire per ogni poliziotto o carabiniere ucciso. «Vedrai che questa volta il Parlamento legifererà un aumento di cinquantamila lire», mi disse mio padre. Così sarà. Ad agosto, una legge  aumenterà l’indennità mensile per tutti gli appartenenti alle forze dell’ordine di 50.000 lire: 20.000 lire per i due carabinieri e 30.000 per i tre poliziotti che componevano la scorta del presidente della DC. Cinquantamila lire e la coscienza sporca della Repubblica italiana tornava pulita.

Giorgio Montolli. Avevo 17 anni e frequentavo il liceo scientifico. Ricordo l’ordine della professoressa, ad alta voce, perentorio. Bisognava abbandonare l’aula e scendere in strada. Così abbiamo fatto tutti quanti ma non mi pare che l’invito fosse in difesa della democrazia. Si parlava infatti di colpo di Stato. Usciti da scuola, per le vie della città, dove si formavano i cortei, c’era una gran confusione. Mi colpì il fatto che si speculasse sui morti a fini politici e di questo mi vergognavo. Di formazione cattolica (scout e parrocchia), pur non militando avevo simpatie molto a sinistra. Dopo l’assassinio di Aldo Moro tolsi dalla parete sopra il letto tutti quei manifestini che avevo appeso nella speranza di un mondo migliore e iniziai a cercare nuove strade.

Roma, 28 giugno 1977. Una stretta di mano tra il segretario comunista Enrico Berlinguer e il presidente democristiano Aldo Moro – Wikimedia Commons

Daniela Motti. Ricordo bene dove ero: a scuola, quando giunse la notizia eravamo in aula, all’epoca non c’erano cellulari, internet o altri strumenti, la comunicazione arrivò tramite l’altoparlante che c’era in ogni aula. Stavo vivendo una situazione personale complicata, avevo perso mio padre, mia madre era morta anni prima e la convivenza con la zia materna era problematica. Stavo vivendo l’adolescenza, la contestazione, l’impegno politico e la militanza mi portarono molto vicino al mondo dell’estrema sinistra, conobbi (lo seppi dopo) “fiancheggiatori” delle Brigate Rosse, persone che non erano implicate nel sequestro di Aldo Moro ma che furono solo sfiorate dalle indagini, compresa una mia compagna di scuola elementare. Ricordo lo smarrimento, la paura e il timore di essere in un tunnel, la democrazia era a rischio, conobbi lo stesso smarrimento quando uccisero Giovanni Falcone prima e Paolo Borsellino poi, la paura non ha colore e odore ma te la senti addosso come un freddo pungente che ti pervade.

Laura Muraro. Facevo la IV ginnasio ma quella mattina a scuola non ci comunicarono nulla, solo al rientro  sull’autobus sentii qualcuno fare riferimento a qualcosa di grave accaduto. Quando aprii la porta di casa la televisione era accesa e mi dettero la notizia… Ricordo bene sopratutto il senso di smarrimento ma non la sorpresa: da mesi si stavano susseguendo attentati sempre più gravi e più frequenti e il tiro si stava alzando sempre più; pensai invece: «Ecco sono arrivati al vertice dello Stato»… e poi quei 55 giorni con quello stillicidio di alterne speranze e delusioni fino al tragico l’epilogo finale. Un ricordo personalissimo è invece legato al mio papà grande estimatore di Aldo Moro, come persona e come politico, che mi raccontava di qualche episodio cui aveva assistito durante i congressi della DC ma soprattutto mi diceva della profondità e raffinatezza del pensiero politico di questo statista. Un pensiero conservato non solo nella memoria di mio padre ma anche in alcune cassette registrate dei discorsi di Moro che mi sembra ancora di vedere far capolino nel cassetto della scrivania.

13 maggio 1978. Commemorazione funebre per Aldo Moro. In prima fila, iniziando dalla seconda persona a sinistra: Pietro Ingrao, Giovanni Leone, Amintore Fanfani, Giulio Andreotti e Virginio Rognoni – Wikimedia Commons

Dino Poli. Quel 16 marzo 1978 lo ricordo benissimo: insegnavo all’Istituto Giorgi e avevo portato proprio in quel giorno una classe, la 4E per Tecnici delle Industrie Elettriche ed Elettroniche (TIEE), in visita all’aeroporto di Villafranca, una visita peraltro di ottimo successo per i ragazzi, per il loro comportamento e per l’aiuto all’apprendimento, dato il gran numero di apparecchiature elettroniche e di servizi di telecomunicazioni presenti all’aeroporto e sui velivoli (era il ’78, una vita fa per la tecnologia). Tornati poi al Giorgi, dietro a San Nazzaro, circa alle una di pomeriggio, abbiamo saputo dalla Portineria dell’avvenuto tragico rapimento, anche perché il sindacato unitario aveva lanciato uno sciopero generale come protesta. A quello sciopero aderii anch’io, interrompendo così le lezioni del pomeriggio. Poi le notizie del rapimento con i particolari, con gli appelli, fra cui quello di Paolo VI, fino all’assassinio e al ritrovamento del corpo di Aldo Moro nella R4. Seguii regolarmente gli avvenimenti sui giornali, riportandoli ai ragazzi in classe, che erano rimasti molto scossi da quella notizia.

Claudio Toffalini. Quel 16 marzo mi trovavo a Padova a lezione all’università, erano ormai gli ultimi esami prima della tesi. Qualche bidello aveva appreso la notizia dalla radio e si erano formati capannelli di studenti impietriti e increduli. Erano anni di “piombo” e mi resi conto della gravità, era un attacco al cuore dello Stato. Ricordo un senso di vuoto e smarrimento, lo stesso che ho provato l’11 settembre di molti anni dopo.

Marcello ToffaliniRicordo un sentimento di sorpresa, di sconcerto, di ribellione, vissuto da insegnante di fisica nelle scuole superiori di Verona. Avendo partecipato fino a pochi anni prima, durante gli studi universitari a Padova, ad assemblee e cortei di protesta post-sessantottini senza mai ridurre l’impegno di studio, mi ero trovavo a criticare il “compromesso storico” (che si stava preparando tra DC e PCI, grazie a Moro) ma senza mai aderire agli inviti di tanti estremisti che ritenevano il “sei garantito” a scuola come una misura utile alla rivoluzione delle classi popolari. Probabilmente già allora fra i “compagni” potevano celarsi gli estremisti eversivi, più facili alla violenza (come successivamente ho appreso dai giornali). Credo di essermi affrancato da certe insidie grazie al mio diretto inserimento nel mondo della scuola e delle vertenze sociali e sindacali. Lotte di quartiere e scuole popolari, a favore dei lavoratori, chi non ricorda gli esiti delle 150 ore, strappate dai metalmeccanici?

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a cura di Cinzia Inguanta

1 Comment

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  1. silvana

    19/03/2018 at 21:10

    Mi ricordo quel giorno, mia figlia compiva due anni. La notizia l’ho appresa tiepidamente. non mi sono resa conto della drammaticità dell’azione delittuosa. Mi vergogno molto ,ma all’epoca ero un po assente dai fatti della politica. Mi ricordo l’appello del Papa Paolo sesto. In quel momento ho provato un brivido quando disse “Uomini delle brigate rosse vi prego in ginocchio liberate Aldo Moro senza condizioni”

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