Il programma di ArtVerona è come un’orchestra sul territorio. Le note stonate sono: la mostra “Hermann Nitsch e il Teatro” e “Picasso. Figure (1895-1972)”, entrambe all’AMO
Orgogliosa epifania veronese, ArtVerona. In questi giorni si svolge la manifestazione ArtVerona, un programma che è un’orchestra sul territorio, luoghi ed eventi come gruppi di strumenti, fiera, gallerie musei, piazze, palazzi, a suonare una musica che sia omaggio al genio innovatore e anticipatore, Wolfgang Amadeus Mozart, artista e uomo sempre contemporaneo. Per vero, riuscire a cogliere appieno il luogo, unicum, che si è creato, ovvero le relazione negli spazi della città, non è evidente, bisogna avere la pazienza e la curiosità di collegare tra loro i suoni ed ascoltarli tutti insieme per avere sinfonia.
Come le note di quella che, silenziosamente e riservatamente, si è propagata nello spazio dell’Auditorium della Gran Guardia, a firma di quel Hermann Nitsch che Boxart, da Vienna, è riuscita a portare nella città scaligera, quel Nitsch che sviscera un’idea di arte nella quale qualcuno vede un novello Caravaggio, altri un inutile e violento gesto. Azione. Di Mozart c’è il territorio, l’Austria. Apertura, adagio, scherzo, e un finale, nei gesti dell’Orchestra Filarmonica di Verona, ampliata da alcuni allievi tra i più meritevoli del Conservatorio scaligero Dall’Abaco, per un totale di 41 elementi. Strumenti, come violini e violoncelli composti a schiera, parte di quest’opera d’arte territoriale, che Roberto Pugliese, ed altri, mettono in scena al Museo degli Affreschi alla Tomba di Giulietta, non a caso, forse, La finta semplice. Ancora Mozart. E come roditori cittadini, a Castelvecchio entriamo in quel Flauto magico, rappresentato dall’accostamento e dal rapporto dialettico, tra sedici opere di sedici collezionisti con gli ambienti del castello, a creare una recita che sia filo tra passato e contemporaneo, suono sottile, legame. Così, con la cura di Andrea Bruciati, la vicinanza nello spazio e nel tempo fra gli animali di Nathalie Djurberg e la fredda lucidità degli antichi strumenti di guerra nella Sala delle Armi crea drammaticità inaspettata. Una musica che si compone di volta in volta e che riecheggia in stanze poliziane che parlano invece di luoghi e di persone. Di tempo, passato e contemporaneo. Creano legami, continuità fluida, senso. Lirica.
Una musica con accompagnatori, che guida fuori da luoghi preposti, in serate al quartiere universitario e multietnico di Veronetta animate dal progetto di sharing art La prima notte di quiete / postcards from an artist a cura di Christian Caliandro e MyHomeGallery, poi lungo il fiume, sul limite del territorio urbano alla Galleria Studio la Città per sentire la collezione di opere di Pier Paolo Calzolari e di Marco Neri e Luca Pancrazzi, fino dall’altra parte del fiume, altri ponti, alla Galleria Marcorossi Arte Contemporanea, in cerca di Paradise Lost, personale di Valerio Berruti, infine, fuori le mura, superando i confini, R comme résistance. Re minore K626 alla Cantina di Soave, Borgo Rocca Sveva. E poi i padiglioni della fiera, come quinte di questo palcoscenico. Un viaggio, come meta.
Come quello che fece il giovane Mozart a cavallo tra il dicembre 1769 e gennaio 1770, fermandosi a Verona e lasciando il segno. C’è la sua firma, e la data incisa sull’organo della chiesa di San Tommaso Cantuariense, dove tenne un concerto la sera del 7 gennaio 1770 sull’organo costruito nel 1716 da Giuseppe Bonatti da Desenzano. Qualche sera prima, Il 5 gennaio 1770 fu invitato dall’Accademia Filarmonica ad esibirsi nella Sala della Conversazione, oggi Sala Maffeiana, dove si faceva anche musica e lettura di drammi, e tenne un memorabile concerto. Aveva 13 anni, e il padre Leopold scrisse alla moglie del luogo e delle persone: «…In fede mia non avevo mai visto nulla di così bello… Non è un teatro, ma una sala con delle logge come all’opera. Al posto della scena si trova una pedana per la musica e dietro la musica, ancora una galleria costruita come le logge. La gente, gli applausi, le grida, il rumore, i bravo incessante, in breve tutta questa ammirazione dimostrata dagli ascoltatori non saprei come descriverla». Verona. Un territorio che è teatro diffuso, senza soluzione di continuità, una musica continua per gli occhi, per il palato, per il cuore, per la testa. Unione di elementi. Lirica.
Chiude il viaggio contemporaneo una nota stonata, anzi due, la mostra Hermann Nitsch e il Teatro e Picasso. Figure (1906-1971) negli spazi di AMO, Arena Museo Opera, a Palazzo Forti, luogo più di tutti preposto a musica per gli occhi. Del primo suono faccio fatica ad ascoltarne la violenza come bellezza, certo ne posso comprendere il gesto intellettuale, forse necessario, ma la sua eplicitazione visibile e per giunta in mostra, faccio davvero fatica e considerarla utile, ma attiene ad un parere personale. Doppia provocazione.
Ciò che invece mi lascia di sasso è lo stridore dell’altra. Il vuoto. 1937, l’anno in cui Achille Forti donò il Palazzo omonimo alla città col vincolo di fare museo, luogo di accoglienza del pubblico sapere, conoscere e sentire. 1937, l’anno in cui venne bombardata la cittadina basca di Guernica, l’anno dell’Esposizione Universale a Parigi. 1937, l’anno in cui Picasso mise l’inutilità della violenza e del dolore su tela.
Guernica divenne simbolo, potere dell’immagine, sinfonia certo ma anche Requiem in re minore, quel Confutatis maledictis, figlio di Dies irae per arrivare a quel Tuba mirum, una tromba che diffonde un suono meraviglioso. Giallo, riconducibile secondo Kandinskij, al sole, al dinamismo e al calore spirituale. Picasso amava il rosso, riconducibile al calore, all’energia e alla vivacità, al suono martellante del tamburo: «quando non ho più blu, metto del rosso».
Ecco. Grigio, è invece il non-colore che accompagna le Figure di Picasso a Palazzo Forti, un non-luogo. Senza relazioni, spartiti, segni, prove, una mostra didattica e didascalica, vecchia nei modi espositivi e nelle logiche, calata dall’alto, un insieme di nozioni su Picasso. Senza rosso, senza territorio, senza legami, senza lirica, senza amore. Nessun racconto. Una mostra parigina, lontana da noi.
Certo. Da vedere, e da portarci gli studenti per farli esercitare sul percorso dell’artista, ma basta un manuale, e neppure quelli attuali di Storia dell’arte ormai sono estranei a relazioni e contaminazioni. Sembra evidente il messaggio, quello di aver preso Picasso e averne utilizzato il marchio, nemmeno il brand, sicuri che il nome attiri, ma la delusione è pericolosa e assai dannosa alla città. Queste scelte amplificano il vuoto, quello di trattare Palazzo Forti come un mero contenitore, una scatola da riempire indifferentemente, senza dialogo con il territorio.
Si perdoni l’ardire, non politicamente corretto (anche rischioso!) ma l’arte è amore, follia, così nasce un appello accorato a chi tiene alla città e ne fa le scelte per tutti: coraggio! Non abbiamo bisogno di “yes man” e nemmeno di “yes woman”, ma di uomini e donne coraggiose, che sappiano progettare, svelare, vedere lontano, creare legami, e questa città ne ha di bellissimi, il percorso è iniziato, si sentono suoni. Kyrie eleison.
Daniela Cavallo