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Dossier

Politica e cultura a Verona

DOSSIER – Nell’ansa che stringe il nucleo più antico e rilevante della città si possono evidenziare almeno una ventina di istituzioni culturali di prestigio che marciano un po’ tutte per proprio conto e in sostanza sempre in grandi difficoltà. Perché non farle dialogare?

Teatro Romano (Verona)
Teatro Romano (Verona)

DOSSIER – Le riflessioni che qui propongo all’attenzione di chi vorrà leggerle non hanno altro fine che quello di aprire una discussione franca e non ideologica sulla gestione delle attività culturali che si svolgono, per iniziativa individuale o politica, nella nostra città e che, direttamente o meno, chiamano in causa le responsabilità delle amministrazioni, pubbliche e private, per quel (poco) che è stato fatto finora e per quel (tanto) che invece si sarebbe potuto, e si potrebbe ancora, fare.

Nessuna intenzione seconda da parte mia, se non l’auspicio che si avvii finalmente un dibattito aperto a tutti i soggetti in causa, dato che l’argomento oltrepassa i limiti della cultura in senso stretto, investendo direttamente anche l’economia e i rapporti sociali. E nessuna presa di posizione a favore di qualche parte politica: pur riconoscendo, infatti, l’avvilente pochezza dell’attuale compagine al governo della città, non posso non ricordare che la crisi del rapporto politica/cultura a Verona chiama in causa le responsabilità pesanti anche di chi l’ha preceduta. In questo, destra centro e sinistra si equivalgono e si danno allegramente la mano, avendo abdicato ormai da tempo alla progettualità.

Vorrei anche chiarire con forza che i rilievi e le proposte che seguono non nascono dalla presunzione di sapere e di capire meglio di tutti gli altri, ma dall’esperienza di oltre quarant’anni di studio e di attività culturale non soltanto nelle aule universitarie, tenendo sempre viva l’attenzione sull’evoluzione e sulle attese della società, nonché dalla pratica di qualche centinaia di iniziative proposte nel corso degli anni a Verona e sul territorio nazionale.

Mappa-Cultura-piccola

Principali istituzioni culturali a Verona (cliccare per ingrandire)

Una città Oblomov
Mi capita di attraversare il ponte Pietra almeno due volte al giorno, eppure lo spettacolo di quell’ansa dell’Adige sovrastata dalla collina di Castel San Pietro e attraversata dai voli inquieti dei gabbiani e delle anatre selvatiche che da qualche tempo hanno preso ad abitare il fiume non mi è ancora indifferente, e non credo di esagerare se dico che quello squarcio è uno dei più suggestivi al mondo. Ma quanto è bella Verona! Lo penso e lo ascolto dalle voci dei turisti che in ogni stagione la visitano e rimangono incantati dalle sue ricchezze artistiche mirabilmente conservate in strutture architettoniche e storico-sociali disposte, come in pochi altri fortunati luoghi, per strati successivi lungo almeno duemila anni di storia (e anche oltre, se ci si allarga a certi siti della provincia che tuttavia nessun assessore ha mai pensato di inserire nei cosiddetti “pacchetti” turistici). Verona città fatata la definisce a ragione nella sua bellissima e originale guida Katiuscia Lorenzini (Cierre 2015), offrendo un saggio degli innumerevoli itinerari tra il centro storico e l’intera provincia che una diversa organizzazione del flusso turistico potrebbe offrire ai visitatori, con benefici anche largamente economici.

Ma la città che per i suoi innumerevoli tesori e per la sua felice collocazione geografica è stata classificata dall’UNESCO patrimonio storico e culturale dell’umanità vive questa ricchezza in modo distratto e superficiale, esibendola sulle guide turistiche, ma incapace di sentirla davvero come una risorsa anche economica. Una città Oblomov, pigra, troppo soddisfatta di sé per approfondirne tutto il valore e le enormi potenzialità. Le istituzioni culturali, come vedremo, non mancano, ma l’esercizio della memoria e della conservazione, diversamente da quanto accade nel resto del Veneto, o fuor di regione vicinissimo a noi (Mantova, Rovereto, Trento), è affidato ad iniziative personali sciolte da una intesa e da un programma comuni.

Riprendo quanto ho scritto anni fa (Il canale Camuzzoni. Industria e società a Verona dall’Unità al Novecento, a cura di Maurizio Zangarini, 1991): Se l’ipotesi di una diversità economica, sociale, e forse anche politica, di Verona nel contesto veneto è difficilmente confutabile, anche se a molti tutt’altro che gradita, ancor più verosimile risulta quella di una sua marginalità culturale entro tale contesto: una marginalità che, a partire dagli anni della definitiva annessione italiana, si fa sempre più marcata, sino a diventare poi distanza o addirittura separatezza, senza peraltro che un diverso modello, nazionale o anche geograficamente più limitato (per esempio, lombardo-padano), riesca in qualche modo a sostituirsi agli orientamenti tradizionali o a rivitalizzarli. Cosicché, lo sviluppo economico e demografico, invero straordinario, che senza grosse pause contraddistingue da allora, e sino ai giorni nostri, l’ascesa italiana di Verona, contrasta, diciamo pure sgradevolmente, con la pochezza e con l’angustia dei suoi contributi culturali, non a caso registrati, da un certo momento in poi, quasi soltanto nelle cronache del municipio.

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Per quantità e qualità (ma la quantità oltre un certo livello è già di per se stessa una qualità) di intellettuali, letterati, artisti, non c’è paragone tra Verona e le altre città venete (e anche la piccola Mantova ci dà umilianti lezioni di vitalità culturale). Addirittura avvilente è il confronto con la vicina Vicenza, se si scorrono le pagine della recente e brutta Verona, Antologia dei grandi scrittori [sic!] degli ultimi centocinquant’anni (2012) abborracciata senza criterio e con scarsa cognizione di causa, riempita con nomi di cuochi, poeti d’occasione, romanzieri dilettanti, critici improvvisati, non so se per ignoranza della materia o perché imposti dalla conventicola ideologica di appartenenza, come quasi regolarmente avviene per le imprese culturali a Verona (e allora meglio si spiegano le assenze di personaggi scomodi come Giuseppe Piccoli, Giorgio Bertani o Giuliana Pistoso). Dove la stessa università, ormai assurta a dimensioni ragguardevoli e in molti ambiti a prestigio anche internazionale, è tuttavia un corpo in parte ancora separato dalla città e guardato con sospetto e gelosia dalle piccole consorterie che gestiscono da sempre le attività culturali legate al territorio.

Stridono, insomma, l’eleganza sfacciatamente esibita nelle strade e l’opulenza a volte pacchiana dell’offerta commerciale e turistica a confronto con una situazione di evidente marginalità culturale rispetto al quadro regionale e più ancora nazionale. Tornano alla mente le parole del giovane Ippolito Nievo, dimenticato (uno dei tanti!) ospite della città per oltre dieci anni (un terzo della sua breve vita), in una lettera a Matilde Ferrari del settembre 1850: Ti riveggo, o Verona! – Ti riveggo brillante, lisciata impudente come la cortigiana del trivio!” quanto “più serva più avvilita, più lussureggiante che mai!”. Una Verona sfacciata, fissata nel “turbinio del popolo” nei “vortici della gente”, nel “chiasso de’ marciajuoli”, nella “pompa vendereccia delle donne.

È forse cambiato qualcosa rispetto a centosessant’anni fa? Forse sì, ma addirittura in peggio.

La Verona di fine Ottocento/primi trent’anni del Novecento godeva di una vitalità culturale senza paragone rispetto ad oggi: più giornali e dunque più opinioni e dibattito politico (oggi l’informazione cittadina, su carta e in tv, lascia margini assolutamente esigui al dissenso in politica, nell’economia e nella cultura); più periodici letterari e culturali; più spettacoli e teatri aperti quotidianamente al pubblico: nel 1913 è stato “inventato” il festival areniano, sul quale la città continua bene o male a campare e mi chiedo se oggi qualcuno, qualche forza politica, sarebbe in grado di realizzare qualcosa di simile per importanza culturale ed economica; più vita artistica condivisa (i cenacoli di artisti e poeti che da almeno trent’anni, se non più, hanno cessato di esistere e di comunicare tra loro: intendo, naturalmente, quelli dotati di credibilità) spesso coinvolta nel governo o nella progettazione della città.

Le colpe della classe politica (tutta)
Ieri, erano gli Ettore Fagiuoli, Antonio Avena, Angelo Dall’Oca Bianca a disegnarne interi quartieri, a valorizzarne il patrimonio artistico magari sapendo anche inventare tradizioni (la casa di Giulietta, la risistemazione della Domus Mercatorum in piazza Erbe, Borgo Nuovo); oggi, per sistemare in piazza Bra una decina di tendoni da caffè di un finto primo Novecento che si estendono allegramente a porzioni sempre maggiori di plateatico, ormai in tutto il centro storico sostituto dei marciapiedi, tanto da richiedere un adeguamento urgente della toponomastica (Piazzetta Bra, Largo delle Erbe, viottolo Santa Anastasia, tratturo Ponte Pietra) si ricorre al regista Franco Zeffirelli, come se a Verona non operassero architetti e designers di assoluta qualità e prestigio riconosciuti. E meno male che, al momento, sembra scongiurata la sua proposta di collocare una statua della Callas nel giardino della Bra: e perché mai? Con quale coerenza rispetto all’insieme? Perché allora non Del Monaco, Di Stefano, Scotto, Tebaldi, ecc.? Solo perché lo desidera “il Maestro”, davanti al quale i diplomati di Palazzo Barbieri, regolarmente senza idee, si accucciano in devota soggezione culturale paesana? Sarebbe forse il caso di ripristinare la Commissione di Ornato che in quel Lombardo-Veneto, con la cui memoria si trastullano gli austriacanti locali al tastasal, ti incarcerava per la minima sporgenza fuori posto di un balcone. Magari verrebbe utile per la ripavimentazione di Lungadige San Giorgio, dove ad occhio e croce si sta preparando senza consultare esperti in materia l’ennesimo scempio del tessuto storico cittadino. Ma a sinistra, dove forse rimorde la vergogna per l’orribile pietraia carsica di Piazza Isolo che avrebbe commosso Giuseppe Ungaretti, le voci al momento tacciono.

Piazza-Bra-ristorante

Piazza Bra (Verona)

Ma non sono soltanto i restauri che fanno discutere o allarmano, visto chi se ne occupa. È più grave, forse, che la città non sappia più progettare arte e bellezza tra le sue mura. Licisco Magagnato (nel 2017 ricorrerà il trentennale della morte: qualcuno se ne ricorderà a Palazzo Barbieri?) auspicava, lui impareggiabile studioso delle arti del nostro passato, una città arricchita di nuove statue e sculture, di edifici decorati con affreschi anche di arte contemporanea (urbs picta, Verona, ma ce ne siamo dimenticati), e di piazze fatte rivivere, non abbandonate al degrado. Nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia avevamo proposto di trasformare gli spazi desolati dei giardini di Piazza Francesco Viviani in un grande giardino del Risorgimento, trasferendovi accanto alla statua di Garibaldi quelle di Cavour, allora nel piazzale della stazione, e di Vittorio Emanuele in piazza Bra: assieme ai busti di Benedetto Cairoli, Felice Cavallotti, Cesare Battisti e Giacomo Matteotti sul muro dell’ex tribunale, e alla lapide che ricorda la prima battaglia partigiana a Verona, avrebbero potuto costituire un bell’aggregato di memoria storica e democratica per non dimenticare. Invece, al degrado del giardino si è pensato di ovviare con una assurda recinzione, poi lasciata cadere come sempre per tutte le idee del sindaco, ad impedire soste notturne. Sbarre, recinti, traverse sulle panchine, autentiche ossessioni di chi governa questa città: ci sarebbe tanto lavoro per gli psicanalisti.

Tuttavia, quando la committenza è rappresentata da una classe politica di cultura modestissima, se non proprio assente, non si può chiedere di meglio. La complessità dei problemi che il governo di una città oggi si trova ad affrontare (con articolazioni non mai strettamente locali, ma nazionali e internazionali, specie per una città come Verona, crocevia geografico di straordinaria importanza europea) è tale da pretendere da chi governa un tasso molto elevato di cultura, da intendersi nel senso più ampio e allargato della parola (non mi si fraintenda, non mi riferisco certo a quella soltanto umanistica), e una sua visione complessa, articolata e allargata al contesto internazionale. A Rovereto (40 mila abitanti) hanno ideato, chiamando un archistar come Carlo Botta, e costruito in pochi anni un museo di arte moderna, il MART, di prestigio internazionale (mentre a Verona si chiudeva invece la Galleria d’Arte Moderna, inducendo alcuni collezionisti privati a dirottare nel capoluogo lagarino le proprie raccolte), sono stati capaci di reinventare il Museo della Guerra facendone un’istituzione di riferimento quantomeno europeo, e di ampliare e arricchire tutti i musei cittadini; a Trento hanno pensato di chiamare addirittura Renzo Piano per un museo delle scienze (MUSE) che nel giro di due anni ha toccato il milione di visitatori. E tutto questo mentre a Verona si è progettato a lungo un cimitero verticale di 35 piani che avrebbe fatto la felicità di Giovannino Guareschi e ci si balocca tuttora con l’idea di un fantomatico Museo dell’amore, partorito dalla mente di quel raffinatissimo uomo di pensiero e di penna che è Federico Moccia, l’inventore dei lucchetti d’amore.

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Nelle due giunte Tosi (il sindaco dei “quattro sassi”, riferiti ai reperti archeologici che continuamente affiorano dal sottosuolo cittadino e che ha avuto pure il coraggio di auto-investirsi della delega alla cultura) l’hanno fatta da padroni titolari di licenza media o di scuola superiore: l’Istruzione è ancora affidata ad un detentore di maturità scientifica, i servizi sociali e la famiglia sono competenza di una segretaria d’azienda, all’arredo urbano provvede un ragioniere, mentre incaricato della manutenzione straordinaria degli edifici pubblici, quasi tutti storici, è un maresciallo guastatore alpino munito di licenza media, il quale, già che si trovava a passare per Palazzo Barbieri, è stato anche provvisto di una delega al “fair-play” (e chissà mai cosa vorrà dire… ma soprattutto fare). Nessun disprezzo da parte mia, sia chiaro, per i non laureati, ma solo la consapevolezza che specialmente taluni incarichi esigono competenze culturali imprescindibili, come è dimostrato dalla fallimentare gestione della Fondazione Arena del piccolo gallerista Francesco Girondini, peraltro gratificato per i suoi reiterati disastri di stipendi attorno ai 250.000 euro l’anno (benefit esclusi, naturalmente).

Più in generale, per nessun partito a Verona la cultura è stato ed è qualcosa di serio da gestire e programmare anche in funzione delle sue notevoli implicazioni economiche: le iniziative culturali di Mimma Perbellini, ultima assessore alla cultura prima della vergognosa vacanza attuale, certamente non resteranno impresse nella memoria cittadina.

La cultura, ad essere chiari, è ed è sempre stata negli ultimi anni (dunque, neppure il centrosinistra è senza colpe) la ciliegina sulla torta di ogni programma elettorale, rimanendo poi regolarmente senza seguito operativo: l’assessorato competente elargito come cadeau per il finanziatore più generoso o più attivo della propria campagna elettorale, purché abbia letto almeno un libro l’anno o possieda a casa un’enciclopedia (anche a dispense).

Affidata a soggetti del genere non è altro che un passatempo o una vetrina per mettersi quotidianamente in mostra, salvo poi incappare in clamorose topiche: come la foto dell’arena di Nîmes (!) scambiata per quella di Verona sulla copertina della pubblicazione patinata offerta ai turisti nell’occasione del centenario del festival lirico; o come quel/la politico/a (mi tengo nel vago per carità di patria) che insisteva per invitare Fortunato Depero, morto da più di mezzo secolo, per le celebrazioni del Futurismo! Ogni più piccola o scombiccherata manifestazione assurge, per incorreggibile provincialismo, ad evento e Verona viene subito promossa a capitale mondiale o nazionale di qualunque cosa: poesia, lirica, medicina, economia, sport, gastronomia. O politica: se Tosi, da scafatissimo democristiano vecchio stampo quale in sostanza è, butta a mare la Padania e i vecchi alleati per i suoi interessi di carriera, ecco che Verona assurge a laboratorio di politica nazionale. In fondo, basta accontentarsi.

Forse sfugge ai nostri rappresentanti che una cultura senza memoria (memoria, si intende, condivisa), senza applicazione paziente e soprattutto senza il senso e il culto della continuità (venti secoli e più di vicende regionali e nazionali messe da parte in un decennio di storia cosiddetta padana e di orribili camicie verdi) diventa inservibile e non produce ricchezza: un “petrolio” – come amava dire con un’espressione tanto abusata quanto vuota e comica per l’effetto che produceva l’indimenticabile Mimma Perbellini, poi passata più coerentemente per le proprie competenze alla presidenza di Verona Mercato – che tuttavia qui genera ben poca energia. Una classe dirigente legittima le proprie ambizioni nella misura in cui si riconosce anche nella storia e nelle tradizioni che l’hanno preceduta e per dar loro nuovo impulso e prospettiva futura le fa coerentemente e coscientemente proprie. Esattamente l’opposto di quanto ha fatto a Verona il governo della Lega, inventandosi, beninteso fino a quando ha fatto comodo, una storia e una cultura che non sono mai esistite e scordandosi allegramente di tutto il resto.

con la cultura non si mangia

… e le colpe degli imprenditori
Ma non è colpa soltanto della classe politica. Come accade del resto quasi in tutta Italia, anche gli imprenditori locali nutrono scarso interesse per le iniziative culturali che non siano di vetrina e di immediato ritorno economico, e ad ogni modo senza progettare continuità. Ognuno marcia per conto proprio, secondo il particulare di cassa (legittimo, beninteso, ma piuttosto miope), senza un progetto condiviso, badando al ritorno immediato più che ad una prospettiva di media-lunga durata: per cui, meglio sport e canzonette che non istituzioni; meglio il personaggio di grido (lo Sgarbi di turno o gli ospiti di IDEM, ormai quasi una compagnia di giro) che non l’artista, lo scrittore, il giornalista, l’attore, l’intellettuale, l’architetto, il musicista, magari non ancora pienamente “incoronati”, ma sui quali scommettere per poi legarli più saldamente alla città. Investendo (sempre poco, s’intende) soltanto in eventi, si sono lasciate così morire quelle più piccole iniziative che tuttavia rivitalizzerebbero il tessuto culturale quotidiano della città: per intenderci, sono spariti in questi ultimi anni gli Schermi d’amore, ha chiuso il benemerito Mazziano, il Festival del Cinema Africano è ormai quasi invisibile. Musica, cinema attualità di interesse (Sorsi d’autore) e teatro emigrano in provincia o altrove (Alessandro Anderloni, che è stato capace di inventare nel nulla della Lessinia l’omonimo Film Festival della montagna ed è riuscito ad impiantare stabilmente il teatro sui monti di Velo Veronese è stato appena nominato direttore artistico del Teatro Comunale di Lonigo: non c’era proprio posto per lui a Verona, dove di cose ne aveva fatte, tante e bene?) o sopravvivono a fatica nei quartieri con qualche spicciolo o grazie ad iniziative tutte individuali. Quanti ostacoli e polemiche per il Carega Jazz Festival, cancellato nel 2010, che pure aveva raggiunto punte di alta qualità! Meglio le performances dei Gesta Bellica di Andrea Miglioranzi, che per una sua precisa dichiarazione («Fascista? Per me è un termine molto caro») era stato coerentemente proposto dalla giunta Tosi come membro dell’Istituto per la Resistenza. Eppure, con le centinaia di migliaia di euro con cui l’AGSM ha sponsorizzato, con rara sensibilità e intelligenza, una soltanto delle due squadre cittadine di calcio, molte di queste iniziative sarebbero potute sopravvivere.

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Dicembre, il mese degli orrori
“Dicembre, il più crudele dei mesi”, potrei dire parafrasando Eliot.
Da qualche anno, a dicembre, Verona offre a cittadini e visitatori con un minimo di sensibilità il peggio di sé: piazza Bra diventa una sorta di suk mediorientale, incoerente, dove ogni cosa è possibile. Tutto è cominciato qualche anno fa quando il sindaco Michela Sironi ha rivestito di drappi rossi alla tirolese le colonne neoclassiche del Municipio e disseminato dappertutto abeti e rami di pino, con il corollario del rogo della vecia il 6 gennaio: il tocco di classe che ancora mancava nel salotto buono della città. L’inerzia poi si è fatta irresistibile, passando alle luci viola, rosa, blu ecc. alle finestre di palazzo Barbieri, sulla Gran Guardia, sui merli dei portoni della Bra, sull’Arena, in piazza Erbe, sulla Torre Lamberti, in un diluvio di luminarie che il mitico assessore Enrico Corsi (carducciano ad honorem per le innumerevoli iniziative inconcluse: E sempre corsi, e mai non giunsi il fine) vantava «comperate a Parigi!», come un tempo si diceva con un sorriso porcellone della biancheria intima acquistata per l’amante. Quindi, via con la ridicola minipista di ghiaccio (poi, per fortuna, bloccata dalla Soprintendenza), con musica sparata per tutto il giorno, affiancata da una giostra paesana proprio sotto il monumento a Vittorio Emanuele II, dove ormai staziona stabilmente l’orrendo trenino color crema che fischia e sbuffa con il suo carico di turisti giocherelloni fermamente determinati a non muovere nemmeno un passo per le vie storiche.

I tradizionali bancheti ormai sono quello che sono: un festival della porchetta e delle mutande rosse, senza che si pensi finalmente a trasformarli in qualcosa di appena più dignitoso e attraente per il turista (Bolzano, Innsbruck, Vienna, Monaco, potrebbero insegnare qualcosa). Anzi, si è concesso la replica in/attorno a Piazza Dante con il cosiddetto mercatino di Norimberga, che di Norimberga non ha praticamente quasi nulla, ospitando in realtà in baracchini di legno similtirolesi (affittati da chi, lo sanno tutti, ma non si dice) venditori altoatesini, vicentini, tedeschi, pugliesi, napoletani o della bassa veronese (ma con cappello piumato alla Schützen per sembrare tedeschi). Ultimamente poi si è oltrepassato ogni limite di decenza e di coscienza culturale. La visuale di piazza Dante, le cui architetture non hanno nulla da spartire con quella apoteosi paesana di crauti, canederli, pane, formaggio e vin brulé, è stata completamente cancellata alla vista dall’orrendo baraccone, stracolmo di cianfrusaglie natalizie, del Mondo di Käthe Wohlfart, perfettamente coerente, secondo l’assessore, con le linee della Loggia di Fra’Giocondo (primo edificio rinascimentale del Veneto), alla faccia della leggibilità dei palazzi sacrificata ad un bel piatto di polpette fumanti, patate sulle braci e würstel alla piastra. Ancora peggio nel prezioso Cortile Palazzo della Ragione, dove da alcuni anni trionfa una Casa di Babbo Natale da cartoni animati, sorvegliata da giganteschi lecca lecca in polistirolo, abeti di plastica e renne giganti in cartongesso, mescolate a taralli e olive pugliesi, mentre sotto la Prefettura un noto vivaista locale ha ammassato quanto di più Kitsch natalizio sia possibile immaginare.

L’obiezione a queste pretese da “intellettuale che arriccia sempre il naso” è scontata: migliaia di visitatori che sabato e domenica affollano all’inverosimile il mercatino, mangiando e bevendo di gusto, mentre l’assessore di turno (sembrava impossibile far peggio di Corsi, ma il tenero Marco Ambrosini ce la sta mettendo tutta e il sorpasso è vicino) si frega le mani contando l’incasso degli affitti. Magari potrebbe chiedere ai locali e ai commercianti della zona quanto siano contenti di questo mercatino che ormai si prolunga per un mese intero facendo scendere vertiginosamente i loro introiti, non meno importanti, crediamo, di quelli del Comune. «Turismo ricco», auspicava tempo fa il sindaco Tosi (L’Arena, 31 agosto 2012): è questo che intendeva per fermare in città i visitatori facoltosi più delle ormai canoniche quattro-cinque ore?

Ma anche negli altri mesi non si scherza
In piazza Bra ormai tutto è possibile, purché non si rispetti il decoro artistico. Per capirci, ecco un rapido elenco di tutte le brutture realizzate o delle baggianate proposte senza pudore e senso del ridicolo da chi ha governato la città: i tendoni da Oktoberfest con birra a volontà sotto le scale del Municipio in attesa della promozione dell’Hellas con cori dedicati ai terroni; la proposta per una finale delle selezioni per Miss Italia sulla scalinata del Municipio, con ragazze in costume tra l’Arena e la Gran Guardia (coerentemente con il negozio di mutande ultraminimaliste da filo interdentale sull’angolo di via Mazzini a fianco della suggestiva ala dell’Arena); e perché no? esibizioni di tennis dentro l’Arena, colpi di prova con palle da golf dai suoi arcovoli fino al Liston e gare di go-kart tra Porta Nuova e piazza Bra con arrivo nel vallo dell’anfiteatro; esposizioni a ritmo continuo di concessionarie d’auto, mentre di piste ciclabili non si parla nella città con un inquinamento tra i più alti d’Europa (altrove, il binomio bicicletta-cultura è ormai riconosciuto da tutti come una risorsa anche turistica); e, con cadenza sempre più ravvicinata, ancora bancarelle di salumi, formaggi, olio, vino e cioccolata, bomboloni fumanti, mentre tutt’intorno si danno da fare finti centurioni, mummie egiziane e improvvisati figuranti di ogni genere (da quello che fa Dante o la Statua della libertà all’adulto bimbetto in carrozzella che sbraita come un ossesso). Nessuna meraviglia, dunque, che l’allora presidente della Quinta Circoscrizione, Fabio Venturi, abbia avanzato la proposta di trasformare tutto il centro storico in una “grande cittadella dei divertimenti”, coerente del resto con gli interessi che elenca puntigliosamente nel suo profilo: “L’Hellas e la curva, il mangiare e bere bene”. Ma chissenefrega del rispetto delle architetture e della coerenza degli arredi urbani! Del resto, se si è potuto piazzare sotto il Ponte di Veja, il più importante monumento geologico della Lessina, un Panzer come monumento al carrista tutto è possibile. Anche proporre esibizioni sportive varie in una piazza Bra minacciata di essere rivoltata nella pavimentazione e messa tutta a prato da un’ineffabile ex-consigliera comunale!

Al culmine dei suoi sforzi culturali, l’amministrazione, nella persona dell’ex assessore al Tempo libero Marco Giorlo, l’Amleto delle dimissioni date, ritirate, ridate quindi sospese, e oggi ufficialmente candidato sindaco, ha partorito anche il Gran Ballo della città, pietosa imitazione di quello viennese, che ha visto ospite di richiamo (!) la pugliese Patrizia D’Addario, nota al pubblico per le vicende riguardanti i presunti rapporti extraconiugali di Berlusconi con escort e giovani ragazze dello spettacolo. Non lamentiamoci poi se i tifosi napoletani inalberano striscioni con la scritta “Giulietta è zoccola”. Vienna deve proprio esercitare una grande suggestione su Palazzo Barbieri: l’ultima trovata, in collaborazione con gli Amici del Teatro è stata la rievocazione con sfilata di carrozze storiche per le vie del centro della visita a Verona, nell’inverno 1856-57, dell’imperatrice Sissi e di Francesco Giuseppe. Così, tanto per fare, per inventarsi qualcosa in mancanza di idee più attinenti alle vicende della città (Sissi è un brand che non delude mai, devono aver pensato), dato che il legame tra quell’episodio di oltre 150 anni fa e la storia successiva francamente ci sfugge, e nessuno dei responsabili della pagliacciata si è preoccupato, a giustificazione dell’“evento”, di indagare un po’ più a fondo e almeno di rendere sommariamente note le ragioni di quella visita.

Ma poi, se il richiamo absburgico fosse così avvertito nella coscienza culturale cittadina, perché lasciare impunemente deperire l’Arsenale, il monumento meglio conservato, come nemmeno a Vienna se ne ritrova di analogo, dell’architettura militare austriaca dell’epoca? Purtroppo, dei monumenti sembra proprio che Verona non sappia che farsene: per far cassa, sono stati venduti Castel San Pietro, Palazzo Forti, Palazzo Pompei, Palazzo del Capitanio, Palazzo Gobetti, e non è ancora finita, mentre la vergogna di Villa Pullè, forse avviata mentre scriviamo a soluzione e sulla quale si è discusso inutilmente per cinquant’anni, chiama in causa anche tutte le precedenti amministrazioni, per le quali costituisce una patente di incuria e di vergogna universale.

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L’ex Arsenale austriaco (Verona)

L’Arsenale austriaco: una vergogna per chi governa la città
Proprio sull’Arsenale e sui progetti più banali o incongrui che sul suo utilizzo sono andati accumulandosi in tutti questi anni, mentre il monumento andava progressivamente in pezzi, potremmo misurare l’incapacità e l’imbarazzo culturale dell’intera classe politica veronese: un ennesimo centro commerciale secondo il sogno dell’ex-sindaco Vito Giacino, ora alle prese con un delicato processo; l’immancabile “Cittadella del gusto” (vini, salami, formaggi, asparagi, ecc.) con aggiunta di “punti shopping” per la gioia dei negozianti del centro e di Borgo Trento (che tuttavia ottusamente tacciono) e per una maggiore scorrevolezza del traffico considerata la posizione del monumento, strozzato tra il fiume e le case del quartiere (ma una mappa della città i nostri amministratori l’hanno mai avuta tra le mani?!); e intanto, mentre nei suoi stanzoni ammuffiti e maleodoranti le selci preistoriche del Museo di Storia Naturale ammassate sconsideratamente in un magazzino si sono rovinate colorandosi di blu, qualcuno ha proposto di trasformare tutto l’enorme edificio in un mega albergo (a Verona sono strapieni tutto l’anno, si sa…), con il corollario di un centro attrezzato per il tempo libero, un “punto moda” del made in Italy, e perché no? negli ampi spazi verdi al suo interno anche “un’area spuntino” per turisti affaticati, secondo la proposta di un’arrembante consigliera dell’opposizione (mai disperare che non arrivi il peggio). E via dicendo, al solo scopo di dimostrare che, a livello amministrativo (ce li possiamo mettere tranquillamente dentro tutti, destra centro e sinistra) non c’è ancora una sola idea decente e praticabile nel rispetto e in valorizzazione di un reperto storico-architettonico di così grande valore. Quelle suggerite a più riprese da Giorgio Massignan sul giornale Verona In e da gruppi di cittadini con competenze certificate in materia e con autentiche premure culturali non sono state neppure prese in considerazione da una classe politica che confonde regolarmente il potere con la conoscenza.

Nessuno finora sembra aver pensato di sondare la disponibilità del governo austriaco per un utilizzo, anche parziale, in comune, sul piano culturale, come, ad esempio, un centro studi per scambi tra l’università scaligera e quelle austriache, con possibilità di accogliere lungo tutto l’anno studiosi, ricercatori e studenti, ampliando le strutture ricettive anche dell’università. O ancora, di ospitare in questo grande contenitore tutte quelle associazioni culturali che in città usufruiscono di spazi asfittici, e che magari sarebbero anche disposte a farsi carico delle spese di riadattamento e di manutenzione dei vari edifici: penso ad una istituzione benemerita come il Teatro Scientifico fondato da Ezio Maria Caserta, ora collocato ancora senza certezze in una sorta di casamatta del complesso, dopo essere stato cacciato dalla sua sede storica di Santo Stefano per far posto all’assurda teleferica stramilionaria di Castel San Pietro. Mentre un trattamento ancora peggiore è quello riservato a compagnie teatrali di qualità ormai certificata e di enorme consenso di pubblico come la Barcaccia di Roberto Puliero e l’Estravagario di Alberto Bronzato, che ogni estate si esibiscono nei cortili dell’Arsenale, arrangiandosi come possono tra ghiaia, prati e qualche stanzone fatiscente. E ancora, tra le tante idee con cui si potrebbe sfruttare una parte almeno degli spazi, una sala prove, a due passi dalla Bra, per l’Arena e i balletti? Un “blocco” attrezzato per chi, soprattutto giovani, vuol far musica? Lo si potrebbe affidare a Enrico De Angelis, uno dei fondatori del Club Tenco, o a Massimo Bubola. Insomma, una cittadella della cultura, della musica, del teatro, e non dello shopping sarebbe proprio disdicevole per la città protetta dall’UNESCO? Professionisti, artisti, intellettuali, associazioni, continuano a dirsi disponibili ad essere convocati per discutere dei tanti progetti possibili e praticabili nel rispetto del monumento: tranne che di ipermercati, e forse è per questo che la convocazione non arriverà mai.

È inutile illudersi, quanti sono al governo (politico, ma anche imprenditoriale, lo ribadisco) della città non hanno manifestato finora concreti segni di interesse per questa magnifica, e quasi unica in Europa, opera militare: un documento storico, nel vero senso del termine, e in quanto tale da salvaguardare, non da corrompere. E quanto al centrosinistra che li ha preceduti meglio stendere un velo pietoso: alla decadenza di edifici storici come questo ha offerto un contributo più che sostanzioso, molto prima ancora che all’orizzonte amministrativo si affacciassero le sbrindellate truppe di Tosi. La crisi della Fondazione Arena, per tornare all’esempio più eclatante agli occhi di tutti, non è opera soltanto di “Attila” Girondini, ma affonda le sue premesse anche nell’insipienza di chi lo ha preceduto e si è illuso, nella competizione ormai globale del turismo culturale, di vivere di rendita.

Sarà forse un caso che l’iniziativa più interessante e di successo degli ultimi anni, il Tocatì, capace di coniugare a costi contenuti, e grazie al massiccio volontariato, divertimento e intelligenza, sia nata e si sia sviluppata (eccome!) al di fuori della politica? Di quella politica che, da posizioni di sinistra, era arrivata ad ipotizzare persino due assessorati per l’alta e per la bassa cultura, come nemmeno ai tempi di Maria Antonietta e delle sue brioches. E ad ogni modo, e come sempre, da distinguere nel caso non sulla base di qualche ragione specifica, ancorché di ardua argomentazione, ma soltanto per ragioni di prestigio personale.

Un tris d’assi sprecato: L’Arena, Shakespeare & Dante, il Carnevale
1. Arenato, più che areniano, il prestigioso festival lirico. 
«Verona – ha dichiarato Philippe Daverio – mi è simpatica, ma è una città un po’ da cialtroni, perché non ha nessun progetto culturale, ma ai veronesi sta bene così. In fondo hanno prodotto il museo di maggior successo dell’Occidente, privo di contenuto e totalmente falso, che è la Casa di Giulietta. Hanno prodotto anche la stagione lirica dell’Arena, che è molto divertente. Se non viene rinnovata, però, tra un po’ farà addormentare anche gli elefanti dell’Aida” (L’Arena, 26 ottobre 2012).
L’ultima cronaca conferma tristemente la profezia (onestamente, sin troppo facile) di Daverio. Il combinato tra il machismo di un Tosi in cerca di rilancio, affiancato dalla “tagliatrice di teste” Francesca Tartarotti (mancava solo questo tocco di esotismo salgariano nel barnum della Fondazione) e l’ottusità di tutti gli attori in gioco (dalle maestranze ai musicisti, dai politici ai sindacati, nessuno escluso) ha prodotto un disastro da cui sarà difficile riemergere in tempi brevi e in termini di credibilità. In pochi giorni e con pochi atti sconsiderati sono finiti alle ortiche decenni di lavoro e di successi che avevano conferito prestigio internazionale alla città. Al momento, vige una pace armata che non promette nulla di buono e che, se non salterà durante la stagione estiva, assicurerà fuoco e fiamme per l’autunno per quanto si può già intuire nelle dichiarazione tutt’altro che accomodanti dei soggetti in campo. A cominciare dal commissario straordinario Carlo Fuortes che ha annunciato una autentica cura da cavallo per l’Ente malato: sparizione del corpo di ballo, riduzione del 50% del personale tecnico e amministrativo, cessazione dei contratti integrativi, sospensioni dell’attività del Filarmonico (52 giornate di serrata già nel prossimo autunno-inverno), rapporti di lavoro a tempo pieno trasformati in tempo parziale. Il finanziamento del Comune dovrà per legge essere ridotto, come quello dell’AGSM: passerà a rimpinguare le casse dell’Hellas? Il rischio più forte è che la Fondazione lirico-sinfonica possa essere declassata a Teatro lirico-sinfonico, con una perdita consistente del finanziamento FUS. Insomma, la musica è finita, canterebbe la Vanoni: a quella che anni addietro era per Verona la gallina dalle uova d’oro si è tirato allegramente il collo, per inadeguatezza, per supponenza culturale, per gli interessi particolari di tutti i soggetti in campo, più attenti alla spartizione delle spoglie che non agli spartiti musicali.

Quand’ero studente, e poi ancora per molti anni, andare in Arena per un veronese era un obbligo, ma soprattutto una festa, anche se richiedeva una certa fatica. Per prendere posto, si entrava alle 18, con le file che si formavano anche due ore prima, e in coda paziente c’erano autentici melomani, intenditori di musica e di melodramma di tutta Italia oltre che numerosissimi stranieri: in coda paziente ai botteghini oggi capita di incontrare gli ufficiali giudiziari che minacciano di pignorare l’incasso per mancati pagamenti agli artisti (L’Arena, 20 agosto 2016). La verità, purtroppo, è che i veronesi disertano in massa l’opera, e dei melomani si è quasi perduta traccia per la qualità musicale e artistica scadente di uno spettacolo che tuttavia negli anni si è fatto sempre più costoso anche per il turista, con il risultato di assistere a serate con gradinate semivuote e in piena stagione una platea sconsolatamente deserta, dove a volte si precipita tra un atto e l’altro il popolo degli scaloni, spesso in braghe corte, canotta e infradito, come in nessun altro teatro al mondo sarebbe concesso e che, come in nessun altro teatro lirico al mondo sarebbe permesso, sempre più spesso si permette di ritmare come al circo o allo stadio le arie più celebri di Aida e Carmen. E anche questo contribuisce non poco a screditare lo spettacolo agli occhi degli ormai sempre più rari stranieri che insistono ad entrare nell’anfiteatro con l’abito da sera. Prezzi che aumentano, qualità che scende vertiginosamente: la realtà è questa, puntualmente registrata nei bilanci fallimentari degli ultimi anni.

Nell’occasione del centenario (2013) del festival areniano l’inadeguatezza di chi avrebbe dovuto gestirlo (Girondini) e di chi l’ha messo improvvidamente a capo della macchina (Tosi, che tuttavia non ha ancora smessa l’intenzione di riproporlo alla carica) è emersa in modo imbarazzante e comico, secondo l’opinione condivisa da commercianti, guide e operatori turistici. Un centenario, lo sanno anche le pietre, ma evidentemente non i titolari dell’assessorato alla cultura e al turismo, tantomeno il sovrintendente, lo si celebra lungo un triennio, con un prima e un dopo, come si fa in tutto il mondo (quel mondo che esiste, eccome! al di fuori di Verona, ma che i nostri amministratori nemmeno si degnano di guardare). Ci si aspettava una città tutta impegnata a celebrare il suo monumento e il festival lirico all’aperto più famoso al mondo, ma dall’alto non si è mosso nessuno: il Conservatorio, peraltro rimasto per qualche tempo al buio perché non c’erano soldi per la bolletta, non è stato nemmeno interpellato per le iniziative a corona che in queste ricorrenze sempre si fanno, purché sussista un minimo di sensibilità e di attenzione culturali: come i concerti diurni negli spazi del centro storico preambolo agli spettacoli serali (che bella immagine di Verona città della musica avrebbero offerto al turista! E al Conservatorio ne sarebbero stati certamente lieti e disponibili). Con l’occasione, si sarebbe potuto rinfrescare pure la memoria di musicisti scaligeri forse dimenticati dagli stessi veronesi: oltre ai più noti Felice Evaristo Dall’Abaco, cui è intitolato il Conservatorio, e ad Antonio Salieri, perché non recuperare alla memoria e all’onore della città, con mostre anche didattiche, quantomeno i nomi di Jacopo Foroni, di Franco Faccio, Pino Donati, Giuseppe Gazzaniga, Giuseppe Torelli, Italo Montemezzi? È probabile che i nostri assessori nemmeno sospettino della loro esistenza, eppure sarebbe bastato consultare una Garzantina di musica, o semplicemente chiedere a chi ne sa. E perché non riproporre all’attenzione gli scritti di un grande critico musicale come Carlo Bologna, strettamente connessi per decenni all’attività della Fondazione, o le registrazioni dei più grandi spettacoli in qualche sala cittadina, o biografie come quelle dei Boggian, benefattori la cui generosità forse la maggior parte dei concittadini oggi ignora; o ancora, di direttori artistici e sovrintendenti storici come Giovanni Zenatello, Alberto Tantini, il ricostruttore del Filarmonico, e Alberto Cappelli? Ma già il paragone con i più recenti Renzo Giacchieri, Francesco Ernani, Claudio Orazi, poi passati a prestigiosi incarichi nei teatri italiani, sarebbe risultato troppo imbarazzante per il mister Bean attualmente sulla loro poltrona, il quale ignora che un brand si rafforza attraverso la memoria, purché si abbia la pazienza e la capacità di tutelarla e, ancor più, di rinvigorirla.

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E l’assessorato all’Istruzione quali iniziative ha pensato di promuovere prima, durante e dopo la ricorrenza? Le scuole ne sono state, e ne sono tuttora, tenute all’oscuro, come se il genere artistico che più e meglio contraddistingue l’Italia nel mondo non dovesse far parte del bagaglio di cultura e formazione degli studenti. Perché non farli assistere alle prove? O organizzare, in collaborazione con il Provveditorato agli studi, incontri con artisti e specialisti nelle scuole? Perché non coinvolgere le scuole d’arte nella produzione di piccole componenti scenografiche o dei costumi? Tutti modi per familiarizzare i giovani con uno spettacolo che dovrebbe avere anzitutto nella cittadinanza chi gli assicura continuità e sopravvivenza in qualità.

Quel che è certo è che si è fatto di tutto per scoraggiare anche le iniziative gratuite individuali. «Volevo mettere nel mio locale il cartellone della stagione lirica, almeno quello visto che non ci hanno proposto altri oggetti o arredi a tema – ha detto sconsolato il titolare dell’Osteria del Cavaliere di Piazzetta Scala –. Niente da fare, mi hanno anche risposto male, e l’impressione è di aver dato fastidio» (L’arena, 11 giugno 2013). Negli alberghi, nemmeno per la prima del centenario si è registrato il tutto esaurito. Il paragone con l’organizzazione del Vinitaly è stato per tutti, albergatori e commercianti, impietoso. Graziella Basevi (Confcommercio) ha così lamentato: «Gli operatori del vino ci portano le bottiglie da esporre e coordinano. In questa grande occasione del Centenario è mancata una struttura guida capace di coordinare i lavori e magari anche coinvolgere gli scettici, che ci sono sempre. A noi dall’amministrazione non è arrivata alcuna proposta» (L’Arena, 9 giugno 2013). Durissimo l’operatore turistico tedesco Robert Schweitzer, che da trentacinque anni portava in Arena i clienti migliori, quelli delle primissime file. La sua diagnosi su Verona è stata di una inguaribile letargia diffusa ad ogni livello: «Da anni la città è completamente addormentata rispetto alla stagione lirica: anche quest’anno, nonostante il centenario, non si è mosso nulla, nessuna differenza. (…) È una perdita progressiva e profonda quella che è avvenuta in città: venti, trent’anni fa tutta Verona viveva in sintonia con questo grande evento di richiamo internazionale, ho ricordi bellissimi di quelle stagioni. Perfino i panifici esponevano le foto ritratto dei tenori, dei soprani, dei grandissimi attesi in Arena. Io credo che sia fortemente necessario recuperare il senso e il sentimento della grandezza di questo evento unico al mondo, di cui Verona ha perduto la consapevolezza e la cultura». (Ivi).

Per il bicentenario verdiano del 2013 a Milano sono stati collocati maxischermi in galleria, nelle strade e persino nelle carceri (a Vienna e a Salisburgo gli schermi in piazza per l’opera e la musica sono una tradizione consolidata). Il maestro Umberto Fanni, cacciato dall’Ente lirico, ha portato con successo a Brescia l’opera in piazza, e intanto piccoli centri come Pesaro (Festival Rossiniano) e Macerata (Arena Sferisterio) hanno sottratto a Verona i migliori cantanti e musicisti, riuscendo a coprire con i biglietti venduti quasi il 90% delle spese. Mentre a poco più di un mese dalle prove e dall’inaugurazione del Festival 2016 tutto era ancora per aria, nelle due cittadine marchigiane erano già allestiti i cartelloni delle prossime stagioni. Addirittura improponibile è poi il confronto con Salisburgo (Festival Mozartiano), per abitanti la metà di Verona, dove i biglietti si devono prenotare con qualche anno di anticipo e dove il festival è un evento capace di coinvolgere ogni angolo della città, facendo vivere/rivivere tutte le vie e le piazze. Guardando a quel modello, ci sarebbe molto da imparare, e soprattutto da rimpiangere, anche a fronte dell’enorme battage pubblicitario che la Fondazione scaligera investe, a quanto pare inutilmente, su giornali e televisioni nazionali. Intanto, secondo quanto dichiarato (10 settembre 2015) da Tosi (Girondini non parla, annuisce sempre: ma si sa, il silenzio è d’oro, come conferma il ricco stipendio che ritirava), i conti dell’Arena vanno male perché «la lirica non basta più», «è cambiato il pubblico», afferma il sindaco, che dei libretti verdiani e pucciniani è, com’è noto, profondo conoscitore: prontamente smentito dalle due recite inaugurali della stagione in corso che hanno fatto il pienone dentro e fuori l’anfiteatro. Ma per Tosi & C meglio Ligabue ed altri, secondo il ragionamento di chi del genere e dello specifico teatrali proprio non sa nemmeno lontanamente cosa siano. Vada a spiegare queste sue idee a quegli ignoranti della Scala, che non vi fanno cantare Celentano o Pupo, o di Salisburgo o di Bayreuth, che, come insegna qualsiasi esperto di marketing, puntano semmai a rafforzare il brand, rilanciando l’identità del “prodotto lirico”, senza confonderla con altri generi. Addirittura monografico è il Festival Puccini di Torre del Lago, per il quale i biglietti già mesi prima sono introvabili.

arena centro commerciale

Ma proprio qui sta il punto: il Festival Areniano si è sempre più convertito in un prodotto essenzialmente turistico-economico e non culturale (accesi i mocoleti e scattati i selfie, al secondo atto l’anfiteatro si svuota in parte del pubblico). Molto meglio perdersi nel progetto di una assurda copertura dell’Arena, buono soltanto a portare pubblicità gratuita ad uno scaltro produttore di calze e biancheria intima, applauditissimo dalla cosiddetta classe dirigente di Verona, che, alla somma di tutto, lo ripetiamo, è complice della disfatta culturale e civile della città.

In termini culturali lo sforzo maggiore lo ha prodotto l’AMO (Arena Museo Opera), cui ben pochi turisti o appassionati hanno abboccato, probabilmente per i 22 euro del biglietto (poi scesi a 13 per disperazione e comunque sempre più del Louvre!). Per vedere in sostanza nulla o quasi è stato addirittura ingaggiato a Milano un “direttore creativo”, Kikka Ricchio, che con quelle tre kappa, che nessuno a Verona, architetto, progettista o più semplicemente persona di solida cultura, può esibire, chissà come avrà impressionato quei provincialotti di Girondini e Corsi. Per intanto, il bilancio 2015 si è chiuso con una perdita di 750 mila euro, ma come al solito non saranno i responsabili della grande idea a ripianare il buco (avrebbe potuto magari pensarci Girondini, rinunciando ai suoi inutili faraonici compensi). Per far vivere lungo l’intero anno l’equazione Verona=Opera, perché non pensare invece ad un Centro Studi di livello internazionale sul Melodramma, avendo a disposizione istituzioni culturali e scientifiche come l’Accademia Filarmonica, il Conservatorio e l’Università, ciascuna con le professionalità, le competenze e le relazioni necessarie? Non è una fissazione professorale questa, come diremo anche più avanti, di centri studi specialistici da avviare sulle singolarità culturali della propria storia, perché è precisamente da istituzione del genere che possono mettersi in moto processi di produzione anche economica, beninteso purché a gestirli non siano alpini in congedo o nostalgici di Salò al solito con la coda di paglia nei confronti della cultura.

A Mantova nel 1999 è stato fondato il Centro Studi Mantova Capitale Europea dello Spettacolo (poi dal 2000 Fondazione), che sulla tradizione prevalentemente medievale e cinquecentesca produce ogni anno spettacoli e convegni di studio con esperti e appassionati di tutto il mondo e con la partecipazione delle scuole. Lo ha fondato, con lungimiranza, il mai troppo rimpianto Umberto Artioli, per anni mio collega docente di storia del teatro all’università, ma, come purtroppo si usa a Verona con i foresti, quasi mai chiamato a collaborare alle iniziative artistiche scaligere. Nella città virgiliana, amministratori di sinistra e di destra si sono dati parecchio da fare negli ultimi anni (il Festival della Letteratura è ormai un appuntamento di qualità internazionale), ottenendo da ultimo la nomina a Capitale della Cultura 2016, un concorso cui Verona non ha mai inteso partecipare (forse per timore di concorrenti agguerritissimi come Taranto, Terni, Matera, Como, Ercolano…) sdegnando il prestigio e pure i contributi anche finanziari che in caso di vittoria (più che probabile) sarebbero arrivati dal ministero. Salvo poi pregare i vicini di casa virgiliani di diventare succursale di Mantova creativa: il 2 marzo 2016 è così nata Verona creativa, con presidente l’eterna, onnipresente Mimma Perbellini, e la segreta speranza che le idee possano venire comunque dall’altra sponda del Mincio. Dove nel frattempo si fregano le mani, registrando grazie alla nomina a Capitale della Cultura e nei soli primi sei mesi di quest’anno un incremento del 33% nel flusso turistico. Se magari qualcuno a Verona nel 2018 o 19 o 20 ci facesse un pensierino…

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2. Shakespeare & Dante
“Che cos’è un nome?” si chiede dal suo balcone l’innamoratissima Giulietta. Già, che cos’è un nome come il suo per cui farebbero carte false tutte le città del mondo, se poi chi ne detiene l’esclusiva non sa proprio che farsene? Fuori d’Italia, in ogni paese il nome di Verona è regolarmente accostato a quello dell’eroina scespiriana. Sembra che sotto il falso balcone di Giulietta (1935) in via Cappello passino ogni anno seicento-settecento mila, o forse più, visitatori (e non conoscerne nemmeno il numero esatto la dice lunga su come i responsabili di turismo e cultura gestiscano questo autentico fenomeno di massa). Meno della metà di questi, ad esser generosi, visiterà San Zeno e ancor meno le altre meraviglie architettoniche della città: all’assessorato competente (?) nessuno mai ha pensato ad un coordinamento con le guide turistiche?

Forse riconoscente per una bottiglia di Recioto portatagli oltre Manica da un ammiratore scaligero, Shakespeare ha voluto fare di Verona uno dei luoghi letterari più famosi al mondo, grazie a Giulietta e Romeo e ai Due gentiluomini di Verona, con un sovrappiù di un veronese, Petruccio, personaggio principale della Bisbetica domata.
Giulietta e il suo mito. Cosa si è fatto finora per valorizzarlo culturalmente? Nulla. Si è lasciato fare a chi improvvisava secondo il proprio estro, sfruttando commercialmente a piacere il luogo e le sue vicinanze senza alcun criterio o avvertenza estetica, e tantomeno senza uno straccio di programmazione. L’ingresso al cortile è una autentica pattumiera di bigliettini appiccicati in ogni dove col chewing-gum, di lucchetti, pupazzetti vari, scritte con pennarelli che si estendono anche agli orribili negozi confinanti con l’edificio: il tempo di ripulire le pareti una volta o due l’anno, e dopo pochi minuti tutto è come prima. Lo sforzo maggiore in tempi recentissimi è stato quello di ipotizzare per i turisti un nuovo percorso a pagamento spostando l’ingresso alla Casa da via Cappello a piazzetta Navona, quindi attraverso il dietro le quinte del Teatro Nuovo arredato ad hoc con riproduzioni e manifesti da cartoleria sul tema dei due sfortunati amanti per sfociare nel cortile dove concedersi al rito di accarezzare con selfie un seno della statua dell’eroina. Falso nel falso, kitsch nel kitsch, ma stavolta a pagamento, suddiviso tra quanti (la finta Casa, il Comune, il Teatro Nuovo e i condomini dello stabile) hanno partorito questa raffinata idea, ipotizzando chissà quali lauti guadagni. Come si vede e come sempre del resto, la discussione ha riguardato più la ripartizione di potenziali utili che i risvolti culturali. Per intanto, la minaccia di carte bollate ad intreccio ha fatto sì che lo sciagurato progetto fosse sospeso, con soddisfazione del negozio di grembiuli cuciti su ordinazione con scritte a piacere dedicate a suocere, amanti, cuochi dilettanti e squadre di calcio: il tocco di classe che mancava per completare una scenografia tanto romantica.

Onestamente, abbiamo visto anche di peggio a San Marino, a Mont Saint Michel, e pure in qualche luogo di Venezia, Roma, Firenze, dove si maltrattano impunemente fontane e statue. Al turismo globalizzato e sbracato tutto ciò può anche bastare. Soluzioni per trasformare questo «museo privo di contenuto» (Philippe Daverio) in qualcosa di più serio e culturalmente più attraente non ne vediamo, se non ampliando l’edificio a discapito delle attività commerciali e poi progettando contenuti di livello: impresa economicamente impossibile e culturalmente impedita dalla pochezza di chi (i politici, tutti) dovrebbe gestirne la trasformazione e, in mancanza cronica di idee (ma non di arroganza e presunzione, trattando di cose che non conoscono), si limita a proporre assurdi tornelli nella già compressa strozzatura di via Cappello (amata dai borsaioli più di Giulietta) e numero chiuso dei visitatori a pagamento: chi, come e su quali accordi con le organizzazioni turistiche dovrebbe eventualmente deciderlo? E un numero chiuso per poter visitare il nulla è compatibile con un turismo di poche ore come quello che è di norma riservato a Verona? Per ora, ci si accontenta dello spettacolo itinerante per turisti nei luoghi scespiriani (?) del centro storico e del teatro Nuovo allestito da Paolo Valerio, ma certamente si potrebbe fare di più.

Come, ad esempio, fare di Verona una città davvero scespiriana, proponendo, come abbiamo suggerito per la lirica, un carnet permanente di iniziative culturali distribuite nell’arco dell’anno, coinvolgendo le scuole, l’università, il Conservatorio, dando insomma consapevolezza anzitutto alla città, che non la possiede ancora per quel che vale, dell’importanza di questo mito, che da solo, per fare un esempio, sarebbe bastato in questi anni a promuovere Verona capitale italiana ed europea della cultura. Invece, all’ombra del balcone, tutto prosegue come sempre: studenti stranieri e italiani affiancano, con modico compenso, lo staff della Casa occupato a rispondere alle lettere di innamorati che arrivano da tutto il mondo e per le quali è stato ideato il Premio Cara Giulietta, collocato nei giorni della manifestazione Verona in Love a cavallo di San Valentino, con orribili enormi cuori rossi di plastica appesi nelle vie del centro.

Balcone-Giulietta-e-Romeo

Il balcone della Casa di Giulietta (Verona)

Turisticamente funziona, è da sciocchi negarlo, attirando pubblico nella “città dell’amore” che è amministrata da un sindaco condannato con sentenza definitiva per propaganda di idee razziste. E allora va bene così, senza tanti sforzi, come per l’altro premio Scrivere per amore, che come idea non sarebbe male, se non fosse che il suo decollo è impedito sin dalla fondazione da una mancanza cronica di fondi e di sostegno, costringendo prima Giulio e poi Giovanna Tamassia, del Club Giulietta, ad eroiche battaglie con politici e imprenditori per raccogliere il minimo necessario ad una sua dignitosa sopravvivenza. E se di premi vogliamo parlare, perché non stabilire un riconoscimento annuale internazionale ai maggiori studiosi e traduttori scespiriani, magari offrendogli in nome dell’eroina la cittadinanza onoraria, come si è fatto incautamente su iniziativa personalissima del sindaco con quel gentiluomo del presidente ucraino Poroshenko, il quale si trattiene impunemente in casa propria i quadri trafugati a Castevecchio? E ancora, si potrebbe pensare ad un programma di incontri internazionali su temi scelti di anno in anno tra gli innumerevoli che l’universo scespiriano offre con straordinarie ampiezza e complessità, toccando ogni affetto e ogni situazione anche del nostro quotidiano. Allora sì, attraverso una serie di “eventi”, se anche noi vogliamo definirli come si usa con enfasi sempre eccessiva tra gli amministratori pubblici che passano per “evento” anche la sagra della pearà, collocati opportunamente lungo i dodici mesi, Verona potrebbe definirsi ed essere riconosciuta come città scespiriana. Non ne guadagnerebbe forse anche il turismo? Che a tutt’oggi, lo ribadiamo, a dispetto di tanta ricchezza storica e artistica è un turismo “mordi e fuggi”, non un turismo culturale nella sua accezione più profonda. Se ne lamentano gli albergatori, ma non hanno mai davvero stimolato il governo della città su questo tema, e aspettano… aspettano ancora…

Per ripagare di tanta grazia immeritatamente ricevuta “il grande Bardo”, i bardotti degli assessorati competenti, che nelle interviste ne straziano imperterriti il nome (sèspir), non si sono certo dannati l’anima. Il 450° anniversario (2014) della sua nascita (1564) è trascorso praticamente inosservato (sarebbe bastato deporre per un attimo fazzoletti verdi, leoni veneziani e corna vichinghe e consultare ancora la Garzantina); il 400° (2016) della morte (1616) è stato lasciato ad iniziative singole e di istituzioni non coordinate secondo un programma pensato per tempo e bene articolato. La parte più importante nella ricorrenza pluricentenaria è stata affidata, com’è giusto, all’Estate Teatrale Veronese e al Festival shakespeariano, giunto alla 68ª stagione, il più importante e prestigioso al mondo dopo quello di Stratford-upon-Avon, ma sempre più in difficoltà negli ultimi anni per lesina di fondi: anche in questa straordinaria ricorrenza, come può confermare il direttore artistico Giampaolo Savorelli, al quale le idee certo non mancherebbero (originale e innovativa quella di una settimana cinematografica scespiriana in agosto al Teatro Romano).

Eppure, il concorso di pubblico è stato eccezionale e dovrebbe convincere gli amministratori pubblici ad investire molto più largamente su questa prestigiosa tradizione. E come non si è fatto e non si fa per gli spettacoli in Arena, che impressione di cultura partecipata offrirebbero ai turisti le vetrine dei negozi tra piazza Erbe e il ponte Pietra se fossero tutte allestite con le locandine storiche degli spettacoli del teatro Romano (si potrebbero anche riprodurre e vendere, come fanno all’estero)! Se si scorrono quelle delle quasi settanta stagioni, con tutti i nomi più prestigiosi del teatro italiano e spesso anche straniero, si rimane doppiamente storditi: per la qualità degli attori, dei registi, dei letterati coinvolti (la prima opera messa in scena è stata una Giulietta e Romeo in traduzione di Salvatore Quasimodo e con regia a quattro mani di Renato Simoni e Giorgio Strehler, alla presenza di Luigi Einaudi!), e per l’ottusità di una classe politica (una volta di più, destra e sinistra qui si danno la mano) con la quale negli ultimi anni gli organizzatori hanno dovuto combattere strenuamente per un finanziamento sempre più risicato. Ma chissenefrega! Meglio investire cinque-sei milioni di euro per i 154 metri dell’assurda teleferica di Castel San Pietro, che non rientreranno mai più nelle casse dell’erario scaligero, ma sulla quale magari campeggerà ad eterna memoria il nome del sindaco, come già comicamente figura sulla statua di Emilio Salgari all’ingresso della Biblioteca Civica. Un sindaco che firma le statue: questo sì è un primato per Verona!

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Nel gettare al vento tutte le occasioni culturalmente propizie l’attuale giunta di Palazzo Barbieri non è seconda a nessuno. Nel 2015 cadeva anche il 750°anniversario della nascita (1265) di Dante Alighieri, che per il nome Verona, dove trascorse alcuni anni e dove dopo la sua morte risedettero i discendenti, ha fatto anche molto di più, e prima, di Shakespeare, menzionandone luoghi e personaggi reali in almeno quattro canti del Poema (Inf. XV, Purg. VI e XVIII, Par. XVI) e i litigiosi “Montecchi e Cappelletti” molto prima di Luigi da Porto e Matteo Bandello. Nella chiesetta di Sant’Elena, il poeta fiorentino lesse nel 1320 la sua famosa Quaestio de aqua et terra, ma guai a farne una rievocazione nell’anniversario! Che colpo sarebbe stata questa ricorrenza triennale per una città che, unica al mondo, è scespiriana e dantesca al tempo stesso! Proviamo ad immaginare, per fare un esempio, un dibattito sugli ebrei e l’ebraismo nella sinagoga di Verona prendendo spunto da passi della Commedia e da Shakespeare (Il Mercante di Venezia)… E quante altre cosa sapendo (già, sapendo!) che nelle loro opere si spazia in ogni ambito della cultura e ancor più in ogni piega della vita e degli affetti, toccando ogni corda, dal comico al sublime. Insomma, un triennio e più di iniziative di risonanza mondiale, se soltanto i politici locali non fossero i soliti ignorantoni che non vedono più in là di un ipermercato o di un punto-shopping.

Anche per l’anniversario dantesco il Comune ha finito per mettere in extremis il cappello sopra iniziative perlopiù pensate da altri: nessuna programmazione per tempo (che vuol dire almeno un anno o due prima) e neppure lontanamente l’idea di proporre il binomio Dante & Shakespeare, che avrebbe potuto dar vita a manifestazioni e incontri di ogni argomento, dal più serio al più frivolo: cioè, non temano i nostri assessori con licenza media, non necessariamente accademici, se è vero quel che afferma il grande critico George Steiner, secondo il quale Shakespeare avrebbe amato pazzamente la televisione!

Ma per Dante, le cose vanno piuttosto male da decenni. Quand’ero studente, la Lectura Dantis scaligera, alla Loggia di Fra’ Giocondo, e le iniziative a corollario attiravano studiosi e appassionati da tutta Italia e dall’estero (memorabile nel convegno del 1965 la partecipazione del grande dantista americano Charles Singleton): nella bibliografia dantesca, ancora oggi le letture scaligere occupano un posto di rilievo. Ma negli anni tutto è stato fatto decadere, i luoghi danteschi cittadini sono per lo più ignorati anche dai veronesi, e i discendenti del poeta (una risorsa trascurata anche questa) si arrangiano da soli, mentre il Centro Scaligero degli Studi Danteschi, sorto nel 1996 per una discussa iniziativa individuale, e la sede locale della Società Dante Alighieri si muovono in concorrenza non proprio amichevole. L’università, che vanta esperti titolati della materia, quando viene coinvolta è più per iniziativa individuale; e comunque, anche nell’occorrenza dell’anniversario il Comune non si è preoccupato di coordinare con largo anticipo e con il soccorso dei più prestigiosi competenti in materia le iniziative dovute da una città al cui signore era stato dedicato il più grande poema di tutti i tempi: un copyright, un’esclusiva gettata, mi si perdoni l’espressione, come le perle ai porci.

Ma ancora una volta delle sue immeritate fortune sembra proprio che Verona non sappia che farsene. E se si pensa che queste siano proposte soltanto elitarie e riservate a pochi si dimentica quanto il prestigio culturale possa fruttare anche in termini economici ad una città. Grazie al suo Festival della Letteratura (sono previsti quest’anno 150 mila partecipanti) ed alla promozione a Capitale Europea dello Spettacolo, Mantova ha moltiplicato negli anni il flusso turistico e la sua forza di attrazione, mentre Trento con il festival dell’economia, Modena Carpi e Sassuolo con quello della filosofia, Rovereto con l’archeologia, e perfino Mestre con il suo festival della politica, hanno capito di dover investire nella cultura anche di alto livello per un ritorno economico.

3. Il Carnevale
Il carnevale veronese è antichissimo, uno dei più antichi del mondo, come attesta una corposa documentazione manoscritta e a stampa. Le sue maschere tradizionali – quelle storiche naturalmente, non quelle inventate ad arbitrio negli ultimi anni (e anche questo è un segno di incuria colpevole) – sono elettive e nei quartieri più storici del carnevale (San Zeno, Santo Stefano, Carega, Isolo e Filippini) la partecipazione elettorale è tuttora sentita e sincera. Dunque, di vera e propria cultura popolare si tratta, ma lasciata colpevolmente a se stessa e a disposizione di chi ne può fare ciò che vuole, nell’indifferenza della classe politica che, elargiti quattro soldi, se ne lava regolarmente le mani. Dopo che Ginetto D’Agostino ha lasciato la Presidenza, dopo essersi occupato del Bacanal del Gnoco come meglio ha potuto, i nodi sono venuti al pettine, tra cui anche quelli legati ad uno Statuto (1992) che in pochi conoscono e ancor meno osservano. E la faccenda non è di poco conto, perché implica la gestione di denaro pubblico, come ha riportato anche la cronaca recente. Intanto, si preannunciano addirittura scissioni all’interno dei vari comitati, che si combattono aspramente sui giornali: al solito, non sulla gestione artistica, ma su come spartirsi i finanziamenti. Alla minaccia di querele reciproche è seguita anche la disputa sulle chiavi della sede del Bacanal sottratte nottetempo da qualcuno (roba da Secchia rapita), a dimostrazione che le vere maschere ormai non sono più i carnevalanti, ma chi dovrebbe gestirli.

Papà del Gnoco, sire del Carnevale di Verona

Papà del Gnoco, sire del Carnevale di Verona

Se altrove, in Italia (Viareggio, Venezia, Cento, ecc.) e in Europa il carnevale è un affare economico di notevole rilevanza, non si potrebbe fare anche a Verona qualcosa di analogo, e di meglio rispetto alle tre-quattro sfilate chiassose e basta comprese tra il venerdì gnocolar e il martedì grasso? Perché non pensare di riempire con il carnevale la stagione più morta del turismo veronese, quella compresa tra l’Epifania e la Pasqua? Due settimane di divertimento e di spettacolo, musica, teatro, cultura e cibo: nella città dell’opera lirica potrebbe trovar posto un festival dell’operetta, che costituirebbe un complemento di qualità e di gradimento assicurato al festival maggiore. Nella città della miriade di compagnie di spettacolo si potrebbe dare il Camploy e altri teatri in utilizzo gratuito con recite il mattino (per le scuole) e la sera. E perché non un cartellone di incontri e mostre con/di autori comici e satirici? Carnevale significa anche cibo e vino e dunque non mancherebbe certo il concorso anche finanziario dei ristoratori interessati. E su di un piano culturalmente più alto, che darebbe lustro ancor maggiore a tutte queste iniziative, perché non coinvolgere, senza sospetti, gelosie e complessi d’inferiorità, la Biblioteca Civica con la sua ricchissima documentazione, e l’università, con i suoi studiosi specialisti di antropologia, di tradizioni popolari, di storia, di sociologia, di arte, e di musica, per la quale coinvolgere anche il Conservatorio e l’Accademia Filarmonica, che custodiscono nei loro archivi preziosi materiali documentari anche delle epoche precedenti da offrire al pubblico?

Istituzioni in crisi o vuote
Non mancano certo a Verona istituzioni culturali di prestigio plurisecolare, ma come vivono? Più che altro sopravvivono tra mille difficoltà, con finanziamenti scarsi o irrisori, e quasi ignote alla stessa cittadinanza.

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L’Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere (1768) nel 2018 festeggerà i 250 di vita. Al momento, per carenza di personale e per difficoltà economiche apre con orario ridotto al mattino le sue stanze, dove sono conservati circa 50 mila tra volumi, opuscoli, manoscritti, mappe originali, periodici, corrispondenze, manifesti, cartoline e documenti rarissimi di storia cittadina. La sua Reggenza si è identificata per almeno due secoli con la classe dirigente, politica economica culturale, cittadina. Ma ad un passato tanto glorioso fa da contrappeso oggi un’attività che si regge, grazie ad un bilancio finanziario estremamente risicato, sulla buona volontà di pochi soci e su di una programmazione che, per forza di cose, è improvvisata ed estemporanea. Così, la bellissima sede di via Leoncino è perlopiù deserta, tranne nei giorni di sedute pubbliche nei quali, tuttavia, la frequenza vede il concorso quasi dei soli soci e in numero assai ridotto.

La Società Letteraria (1808). Come l’Accademia, anche il Gabinetto di Lettura di piazzetta Scalette Rubiani (più antico del prestigioso Gabinetto Vieusseux fiorentino) non naviga in acque migliori. Anche la Letteraria ha offerto un contributo altissimo alla vita politica e culturale della città, per poi decadere sempre di più a partire dagli anni Settanta del Novecento, scendendo dagli oltre mille soci del dopoguerra a meno di 400, molti dei quali purtroppo morosi (l’iscrizione è aperta a tutti i cittadini, ma a pagamento di una quota annuale). A salvarla da un crollo non soltanto economico, ma fisico, era intervenuto il compianto presidente Giambattista Ruffo, che nel giro di alcuni anni aveva rastrellato finanziamenti di tale portata da rendere oggi veramente splendida la sede che si affaccia su piazza Bra. Non sembra che i successori siano stati alla sua altezza. Le difficoltà economiche oggi si sono fatte nuovamente e pesantemente sentire, il patrimonio librario e soprattutto quello periodico che costituiva la sua eccellenza si è impoverito e addirittura una parte rilevante è andata a fuoco, per una gestione colpevolmente avventata: si parla di decine di migliaia di volumi (90 mila?), alcuni dei quali rarissimi, mentre l’attività culturale è ormai spesso affidata, perlopiù dietro un offensivo compenso (quasi una mancia) di pochi euro, ad estranei alla Società, a chiunque si faccia avanti, senza programmazione e tantomeno autonoma politica culturale. La straordinaria biblioteca ottocentesca, tra le più complete d’Italia, è utilizzata se non da pochi soci, men che meno dalla cittadinanza e l’assemblea annuale, dove si dovrebbe discutere di indirizzi e programmi culturali, vede la partecipazione di una sessantina di iscritti, alcuni dei quali, per non darsene più pensiero, vorrebbero addirittura cedere l’intera sede al Comune.

L’Accademia mondiale della poesia (2001). Anche questa istituzione è piovuta inaspettatamente dal cielo a Verona: come e perché è tuttora un mistero, considerata l’esile tradizione poetica della città, da non confondersi, come si legge invece sulla sua homepage, con i poeti che l’hanno visitata (due cose, com’è noto, ben diverse). Non si sa come definirla, cosa faccia, che legami abbia intessuto con il territorio e con le altre istituzioni culturali cittadine. Il 21 marzo di ogni anno celebra la Giornata mondiale della poesia con esiti che definire modesti è generoso, poi si riavvolge nel silenzio degli spazi di via Roma e non se ne sa più niente o poco. A tutt’oggi funge da vetrina mondana dei soliti noti più che da motore culturale e letterario per la città, compito che da 40 anni svolge, al contrario, molto bene e con riscontri internazionali il gruppo di Anterem, della cui esistenza gli assessori veronesi alla cultura forse nemmeno sospettano.

Museo-Lapidario-maffeiano

Il Museo Lapidario Maffeiano (Verona)

Il Museo Lapidario Maffeiano (1738- 49). Pensato e voluto dal più grande intellettuale veronese degli ultimi 250 anni (ma a Verona cosa si fa veramente per coltivarne più diffusamente la memoria tra i concittadini? Perché non istituzionalizzare un appuntamento con cadenza annuale per questo studioso in relazione al tempo con i sapienti di tutta Europa? O forse è meglio commemorare in chiave espressamente reazionaria, come accade ormai da anni, le Pasque Veronesi?), è il secondo più antico museo pubblico d’Europa, dopo i Capitolini di Roma. Collocato in piazza Bra, in una sede che permette una passeggiata sopra le mura medievali, è uno dei luoghi cittadini meno frequentati dai turisti e raramente (ma potremmo tranquillamente dire quasi mai) sfruttato nei suoi spazi suggestivi per iniziative culturali.

Spazi abbandonati o parzialmente utilizzati

Senza ulteriori approfondimenti o ipotesi su come sfruttarli, mi limito a questo punto ad un nudo elenco:

  1. La cinta muraria, per buona parte intatta, il cui vallone, secondo un’ardita proposta della consigliera comunale Lucia Cametti, si sarebbe potuto trasformare in un enorme parcheggio en plein air.

  2. I Palazzi Scaligeri, che non si sa ancora come riempire.

  3. La Galleria d’Arte Moderna nel Palazzo della Ragione, dove a tutt’oggi prevalgono tristemente gli spazi vuoti e le pareti nude.

  4. L’Ospedale militare: una delle tante occasioni finora perdute della città. Un edificio immenso collocato strategicamente tra la stazione e il centro storico, dove si sarebbe potuto collocare, a piacere, sedi universitarie, musei, raccolte civiche, sale congressi, ecc. se le menti politiche cittadine ci avessero mai pensato una sola volta.

  5. Castel San Pietro: indicato da anni per tutto e il suo contrario.

  6. Le Torricelle austriache. Saremo pure dei sognatori ingenui, ma non rinunciamo alla suggestione di poter trasformare i forti absburgici collocati a minaccioso controllo militare della città in suoi presidii di civiltà, affidandoli in comodato d’uso alle tante associazioni culturali del territorio.

  7. L’Arsenale, di cui abbiamo già detto e il cui degrado certifica la miseria politica della classe cittadina di governo.

  8. La Passalacqua. A pochi mesi dalle elezioni comunali ecco rispuntare l’ennesimo progetto di ristrutturazione di questa enorme area vicinissima al centro storico e compresa tra le due stazioni ferroviarie: un’occasione a tutt’oggi perduta, e chissà per quanto tempo ancora, visto che le cifre ipotizzate per l’intervento non si sa su quali certezze poggino. Un’occasione unica non soltanto per rigenerare il quartiere di Veronetta, ma per dare tutt’altro volto all’intera città e dotare l’università di un vero e proprio campus, con un grande parco e impianti ricreativi a disposizione di tutti. Chi se ne occupava, il vicesindaco Giacino, ora è occupato in delicate vicende penali, ma come prima cosa aveva pensato ad una robusta iniezione di edilizia abitativa nella città degli oltre diecimila appartamenti sfitti. Ecco cosa intendiamo per politica senza immaginazione perché priva di cultura.
  9. E mettiamoci pure il piazzale della stazione Porta Nuova, un’altra pietraia disadorna e priva delle più elementari strutture di accoglienza che si offre al turista come biglietto da visita non proprio lusinghiero della città.

Il conto dell’incuria della memoria è piuttosto salato, come si può vedere, e ancor più imbarazzante. Anche un incompetente o profano di questioni culturali capirebbe che per ognuno di questi spazi farebbe carte false ogni altra amministrazione del paese.

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Per concludere una proposta: interconnessione
In tempi, che si prospettano molto lunghi e difficili di ristrettezze finanziarie non si può pensare che l’immenso patrimonio artistico-culturale della città possa essere valorizzato in tutte le sue potenzialità anche economiche come si è fatto sinora, cioè per iniziative individuali e per episodi, seguendo più l’inventiva e l’estro del momento o il ghiribizzo di qualcuno, come è successo anni addietro quando, per accontentare la vanità di un sedicente intellettuale goethiano, è stata intitolata e provvista di un busto a Goethe una grande sala della Civica, per poi non far seguire mai più nulla in onore del grande poeta (nella città dove, peraltro, ha la sua sede il colosso tedesco Autogerma…). E il discorso andrebbe esteso anche alla provincia, alle sue ricchezze storico-artistiche che coprono più di trenta secoli, alle innumerevoli memorie culturali e letterarie non ancora sfruttate come meriterebbero: sulla sponda gardesana e nel suo straordinario entroterra si pensa ancora di poter incrementare il turismo con le sole sagre e gli alberi della cuccagna. Il Parco del Baldo, la montagna più cara ai veronesi, luogo privilegiato anche della tradizione letteraria popolare, l’hanno fatto dall’altro versante i trentini, dopo che a Verona se ne era parlato inutilmente per decenni in Provincia (cfr. Bartolo Fracaroli su Verona In del 2 e 11 agosto 2016).

Mentre si progettano con fondi pubblici cittadelle del gusto e della gastronomia, ancora non si è realizzato che Verona già dispone nel proprio cuore storico di una cittadella della cultura di notevoli potenzialità, che attende solo di essere riconosciuta sulla propria mappa e utilizzata per quel che potrebbe significare per cambiar passo e ovviare alla diffusa letargia culturale lamentata da molti. Basterebbe forse guardare meglio quel che già abbiamo sotto gli occhi: per portare un esempio, Verona Minor Hierusalem, un suggestivo percorso tra cinque chiese ubicate all’esterno dell’ansa dell’Adige, insegna come non ci voglia poi molto per valorizzare al meglio il già esistente.

Più o meno nell’ansa che stringe il nucleo più antico e rilevante della città si possono evidenziare una ventina almeno di istituzioni culturali di prestigio che marciano un po’ tutte per proprio conto e in sostanza sempre in grandi difficoltà, fin quasi all’immobilismo o soltanto alla gestione risicata del quotidiano. Un solo esempio per capirci: ristrutturata completamente, e bene dobbiamo tutti riconoscerlo, la Biblioteca Civica, sono venuti drammaticamente a mancare in questi anni i fondi per l’acquisto libri, per il necessario completamento delle collezioni storiche che costituiscono il nerbo di una biblioteca e per le iniziative culturali, che continuano soltanto per la generosità e la disponibilità gratuita di chi accetta gli inviti della direzione. Lo stesso può dirsi per la Società Letteraria, per l’Accademia, per il Conservatorio, la Casa di Giulietta ecc.

Al di fuori di relazioni interpersonali specifiche tra i responsabili, molte di questi istituzioni non comunicano tra loro: un po’ per cura gelosa del proprio recinto di interesse; ma molto di più perché non c’è stato finora chi le abbia messe in comunicazione reciproca: un compito che spetterebbe al responsabile politico della cultura, cioè all’assessorato competente, da dove anzitutto dovrebbe partire la spinta al dialogo. Per questo assessorato, più che il solito incolore personaggio con qualche infarinatura culturale ed escluso dalle cariche con i portafogli più ricchi, servirebbe un politico con riconosciute attitudini manageriali, il cui primo compito dovrebbe essere quello di mettere in interconnessione tutte le istituzioni culturali e scientifiche più rappresentative della città. Interconnessione che oggi, come per qualsiasi altra impresa privata o pubblica, significherebbe incremento e scambio reciproco di conoscenze (quanto davvero sanno uno dell’altro i vari soggetti culturali della città?) ed economie di scala (ad esempio, nell’acquisto del materiale bibliografico e nella comunicazione).

Si tratterebbe, insomma, di costituire un cartello delle più rilevanti istituzioni, quali sono indicate nella mappa riprodotta in alto dopo l’introduzione, e dotarlo, come prima cosa, di un’unica mailing-list complessiva, per poi indire una sorta di Stati Generali della cultura con il compito di un censimento aggiornato di attività ed esigenze che spesso sono sconosciute al pubblico dei potenziali fruitori, oltre che alla politica. Un comitato scientifico composto dai loro rappresentanti potrebbe sulla base delle necessità più prossime (anniversari, celebrazioni, eventi straordinari, ecc.) decidere di volta in volta gli obiettivi prioritari, evitando in tal modo sovrapposizioni e dispersione dei finanziamenti a pioggia, generalmente irrisori proprio in quanti tali. Lo si sarebbe potuto fare, ad esempio, per il centenario della stagione lirica, o in occasione degli anniversari scespiriani e dantesco, per i quali l’intero cartello delle oltre venti istituzioni indicate avrebbe avuto specificità e professionalità culturali da offrire, se attivate per tempo. A ben guardare, la loro storia è molto spesso, come accade in provincia, una trama di personaggi e di momenti comuni, per cui l’eventuale loro cartello qui auspicato più che una sola aggregazione necessitata dalle difficoltà dei tempi sarebbe anche una ricommettitura di vicende in larga parte condivise.

Il progetto e l’obiettivo sono indubbiamente ambiziosi e di non immediata realizzazione, soprattutto perché in ambito culturale la tendenza alla separatezza e all’iniziativa individuale non è mai facile da vincere. Ma dal ruolo di coordinatrice di questo cartello la politica potrebbe trarre più soddisfazione e lusinga che non dal banale presenzialismo burocratico cui per la cultura generalmente si condanna.

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Mario Allegri

Written By

Mario Allegri ha insegnato letteratura italiana contemporanea alla Facoltà di Lettere di Verona. Ha pubblicato vari saggi letterari in riviste, giornali e presso editori nazionali (Utet, Einaudi, La nuova Italia, Il Mulino). Ha partecipato come indipendente alle primarie 2011 per l'elezione del sindaco a Verona. marioallegri9@gmail.com

4 Comments

4 Comments

  1. Gerolamo di fornello

    08/09/2016 at 21:41

    Ho letto soltanto oggi con grande attenzione e rammarico il lungo ed esauriente articolo del prof. Allegri. Che dire? Il migliore e piú impietoso ritratto di Verona oggi, addormentata su guanciali leghisti e totalmente priva di seri contenuti e progetti culturali. Che fare e come reagire? Siamo in vista delle prossime elezioni amministrative. Facciamo conoscere queste critiche e progetti, assieme a quelli di Massignan, a chi si vuole candidare alla guida della città e sentiamone le risposte. Queste sarebbero le vere primarie…

    • Redazione

      09/09/2016 at 08:18

      Caro Gerolamo, seguirà presto un altro dossier e proprio come dici tu il giornale Verona In cerca di offrire spunti alla politica, senza voler sostituirsi ad essa e senza esserne subalterno. Grazie del commento. Sulle vere primarie concordo. Dalle idee agli interpreti e che ad andare avanti siano i progetti migliori e le persone più capaci di renderli concreti (g.m.)

  2. andrea gonzato

    05/09/2016 at 17:36

    Complimenti Professore per la Sua analisi, tanto impietosa quanto veritiera.
    Lo scorso anno incontrai personalmente due importanti esponenti politici (peraltro citati in grassetto nel post!) ai quali avevo proposto un progetto di promozione e sviluppo del turismo culturale. Avevo esposto dati, trend, statistiche, tempi di realizzazione, target e tutto quanto utile alla realizzazione. Si sarebbe trattato (tra l’altro) di coniugare storia, cultura e nuove tecnologie proprio in alcuni dei luoghi da Lei citati (Arsenale e casa di Giulietta, ad esempio).
    Dopo oltre mezz’ora di presentazione, sa qual è stata la risposta?
    “Si, si…belo belo…ma tanto a Verona la gente la ghe vien stesso”.
    Di fronte a questa raffinata analisi delle prospettive di sviluppo del turismo, che aggiungere?

  3. Paola Lorenzetti

    02/09/2016 at 09:15

    Complimenti Mario per questa tua analisi, che svela anche ai cittadini meno attenti le gravi pecche del modo di intendere la cultura di molti veronesi che contano. C’è una cosa che mi sono sempre chiesta: la nostra città ha la fortuna di accogliere una buona accademia artistica. Perchè, quando c’è da progettare qualcosa, come il nuovo look della Bra per esempio, non ci si rivolge agli alunni e ai professori della scuola, chiedendo a loro di proporre dei progetti? Questa sarebbe una grande occasione per la città, che oltre a spendere meno (credo che i grandi nomi forse vogliano cifre in proporzione) potrebbe godere di idee fresche, forse diverse e originali, e anche per gli studenti, che potrebbero così applicare i propri studi a compiti di realtà importanti.

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