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Massignan come Lorenzetti disegna la città ideale

Allegoria del Cattivo Governo, 1338-1339, Sala della Pace, Palazzo Pubblico, Siena

Un’idea di città ben descritto nel ciclo di affreschi esposto a Siena e conosciuto come l’Allegoria ed Effetti del Buono e Cattivo Governo. Di cosa ha bisogno La Verona che vorrei per essere realizzata? Anzitutto di un Buon Governo

Una volta in Piazza del Campo, dopo l’improvvisa e sempre nuova meraviglia che toglie il fiato anche ai più consumati frequentatori, se si alza un poco lo sguardo verso Palazzo Pubblico essa non può che aumentare, diventando stupore e ammirazione per un’opera pubblica che, con massiccia armonia, rappresenta una delle vette architettoniche e politiche più alte del medioevo italiano. Impossibile poi non alzare gli occhi ancora più in alto, facendo scorrere la vista su su per la Torre del Mangia fino a dove il rosso dei mattoni ed il bianco della pietra si stagliano nell’azzurro del cielo.

Ma solo varcando la soglia di Palazzo Pubblico, ancora oggi sede del Comune di Siena, l’estasi estetica si tramuta in vivo interesse artistico, storico e politico. Giunti nella Stanza dei Nove, o Stanza della Pace, si incontra infatti il ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti (1240 circa – 1348), maestro della scuola senese del Trecento, conosciuto come Allegoria ed Effetti del Buono e Cattivo Governo. Quattro affreschi, unici al mondo e tra i primi esempi di arte civile, che interrogano la curiosità e le intelligenze di chi li osserva, volti ad ispirare l’operato del Governo dei Nove che reggeva allora le sorti della Repubblica di Siena, un sistema democratico con un avanzato meccanismo di rotazione delle cariche, dal quale ci sarebbe molto da imparare in tempi di derive autoritarie.

La partita che si gioca nella Stanza dei Nove è la sfida delle sfide: da un lato il Buon Governo, con la minuziosa ed evocativa rappresentazione dei suoi effetti sulla città e sulla campagna, dall’altra il Cattivo Governo, di cui vengono raffigurati i tragici esiti. Quattro affreschi che restituiscono forma e colore al bivio decisivo di fronte al quale si trova ogni governante: operare per il bene della comunità, oppure per il proprio. Se nell’Allegoria del Buon Governo riconosciamo la Giustizia, la Concordia, il Comune e relative virtù, in quella del Cattivo Governo tutto ciò cede il posto alla Tirannide, mossa da tre vizi alati (Avarizia, Superbia e Vanagloria) e accompagnata dai vari volti che può assumere il Male. Sotto la Tirannide, calpestata e soggiogata, giace la Giustizia.

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Allegoria del Buon Governo, 1338-1339, Sala della Pace, Palazzo Pubblico, Siena

Le due allegorie antitetiche, come dicevo, sono accompagnate dai relativi affreschi che mostrano gli effetti dei due modelli possibili di governo. Quello relativo al Buon Governo, in particolare nella parte dedicata ai suoi effetti sulla città, è una delle più belle raffigurazioni mai realizzate della città ideale, che assume ancor più valore perché messa in relazione con la sua campagna circostante. Nell’affresco trovano posto le attività produttive dell’epoca, gli scambi commerciali, gli interventi edilizi, finanche i luoghi consacrati allo studio e all’insegnamento, ma non solo. Sono pre-viste anche le cosiddette attività del tempo libero, in primis musica e danza. Il tutto nel segno della concordia, condizione essenziale per la convivenza pacifica in città.

La città ideale è, prima ancora che la migliore delle città possibili, anzitutto un’idea di città. Come quella dipinta dal Lorenzetti, un’idea di città muove dall’osservazione e dalla conoscenza di un contesto territoriale specifico per restituire un modello a cui tendere, un progetto da realizzare. Senza un’idea di città, un’idea buona si intende, non possono che attenderci povertà e distruzione, abbandono e soprusi, ovvero gli effetti del Cattivo Governo, il quale, non elaborando alcuna idea di città, la abbandona ciecamente agli esiti più drammatici. Il Buon Governo, al contrario, possiede un’idea di città, la quale a sua volta, per essere realizzata, necessita di un potere politico all’altezza del compito che i cittadini gli hanno assegnato.

Un’idea di città è quello che a Verona è mancato in questi anni di Cattivo Governo. Un’idea di città è ciò che ha messo a disposizione di tutti, facendoci un grande regalo, Giorgio Massignan. Durante l’assemblea pubblica La Verona che vorrei, tenutasi sabato 13 febbraio in un’affollata sala dell’Educandato Agli Angeli, non ho potuto fare a meno di pensare agli affreschi di Ambrogio Lorenzetti. Sono passati più di seicento anni, Verona ruba la scena a Siena, ma l’esigenza di avere un’idea di città che sia ragion d’essere e risultato finale dell’azione di Buon Governo risulta essere la stessa. Massignan, come il Lorenzetti, disegna la città ideale, ne esalta le risorse migliori, fa ordine nel caos. Anche la sua presentazione ha ricalcato il metodo del Lorenzetti: una pars destruens, quella dell’analisi della situazione attuale (effetti del Cattivo Governo), ed una pars construens, quella delle proposte (effetti del Buon Governo).

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Le proposte di VeronaPolis tengono in considerazione le vocazioni del territorio veronese, la sua composizione sociale, il suo tessuto economico-produttivo, la sua storia, rimediano alle sue mancanze, avanzano soluzioni ai problemi e guardano al futuro con idee affascinanti ed innovative. Il tutto nel segno della qualità della vita, del rispetto dell’ambiente e della salute, del lavoro, dell’accoglienza, di un’offerta turistica da ripensare, delle esigenze reali della popolazione e delle attività produttive, della valorizzazione del patrimonio esistente… alla ricerca della concordia perduta.

Di cosa ha bisogno La Verona che Vorrei per essere realizzata? Anzitutto di un Buon Governo, che metta l’interesse pubblico davanti a quello privato, che non manchi di coraggio e di ambizione, che sappia ascoltare e dare seguito alle richieste della cittadinanza, come sottolineato da Gianni Falcone (Bene VeronaPolis, ma la città che vorrei io…), e sia coerente con la visione del mondo che soggiace alla proposta urbanistica del suo artefice Massignan. È sufficiente un eccellente piano urbanistico per garantire un futuro di prosperità alla nostra città? No, non lo è. C’è bisogno di una classe dirigente all’altezza della sfida e di un nuovo rapporto tra informazione e democrazia, come giustamente scrive Giorgio Montolli (VeronaPolis propone un nuovo modello di città). Allo stesso tempo, ci vuole anche un piano economico, come suggerisce Paolo Ricci (La Verona che vorrei, traslazione da sogno a realtà secondo Paolo Ricci), che risponda all’emergenza economico-lavorativa in cui la nostra città versa. Insomma, c’è bisogno della Politica, e non di una classe politica che, permettetemi l’espressione un po’ desueta, sia il comitato d’affari della borghesia, peraltro ben poco illuminata.

Vi sono poi la questione sociale, sulla quale hanno recentemente scritto anche Paola Lorenzetti (Le relazioni al centro, una scommessa da vincere) e Daniela Motti (La dimensione sociale della Verona che vorrei), e la questione culturale, altrettanto centrale, sulla quale ha insistito spesso, tra gli altri, Mario Allegri, sempre in modo puntuale e vivace.

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Effetti del Buon Governo in città, 1338-1340, Sala della Pace, Palazzo Pubblico, Siena

Con Allegri, tuttavia, non mi trovo d’accordo sulla chiave interpretativa da lui scelta per leggere la giornata organizzata da VeronaPolis. La sala era affollata e le idee proposte stanno circolando e ottenendo un consenso diffuso, soprattutto in quella parte silenziosa ma attenta ed attiva della città che può essere la vera anima del cambiamento. Forse perché mi accompagna un irriducibile ottimismo, una tensione costruttiva, forse perché mentre scrivo penso ad un pubblico di lettori diverso, ma non condivido il punto di vista del suo pessimista e polemico j’accuse, per altri versi assolutamente condivisibile, nei confronti dei soliti noti, come ben sintetizza l’azzeccato titolo VeronaPolis, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.

Allegri ha ragione quando denuncia le assenze illustri all’iniziativa di sabato scorso, la sordità dei protagonisti della politica cittadina, l’ostentata sufficienza nelle dichiarazioni di alcuni tra loro, l’ossessivo tatticismo solo politicista, le alleanze a dir poco ambigue del PD con i responsabili della grottesca tragedia scaligera a cui da troppo tempo assistiamo. Allegri sceglie, tuttavia, di non andare oltre, di non ampliare lo sguardo, di non trarre le dovute conclusioni e di non porsi seriamente il tema del cambiamento. Si limita, per così dire, alla pars destruens, rinunciando, purtroppo, alla pars construens del ragionamento, in questo caso tutta politica.

La Verona che io vorrei è quella che smette di subire quel che accade, abbandona fatalismo e passivismo, si mette in moto per costruire nuove geometrie politiche e sociali che consentano alle proposte di Massignan, assieme alle altre buone idee e pratiche che già ci sono o che emergeranno, di diventare realtà. Perché se la politica è l’arte del possibile, con intelligenza, entusiasmo e concretezza possiamo tradurre in realtà il sogno che Massignan ci ha trasmesso. A noi il compito di rimettere insieme i pezzi del puzzle, per recuperare quella necessaria visione d’insieme che latita e permettere, in modo collettivo ed organizzato, di ridare a Verona il futuro che merita. Per fare questo è necessario superare, con uno sforzo di immaginazione e coraggio, le strette maglie del claustrofobico quadro politico scaligero.

Grazie ancora a Massignan per il regalo che ha fatto a Verona, lo stesso che Ambrogio Lorenzetti fece a Siena nel Trecento. Il disegno della Verona che vogliamo ora esiste, manca solo un Buon Governo che lo realizzi. Io scelgo di coltivare il sogno di giungere sull’isolo de la cité dopo aver attraversato uno dei ponticelli in via Ritorno dell’Acqua Viva, accarezzare l’acqua passeggiando sulla passerella pedonale lungo il nostro trascurato Adige, per poi risalire in via Sottoriva dagli antichi accessi al fiume. E a chi ci dice che è un’utopia, rispondiamo con le parole di Adriano Olivetti: “Spesso il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare”.

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Enrico Bertelli
berte.enrico@gmail.com

Allegoria del Cattivo Governo, 1338-1339, Sala della Pace, Palazzo Pubblico, Siena

Allegoria del Cattivo Governo, 1338-1339, Sala della Pace, Palazzo Pubblico, Siena

Leggi
Sulla Verona che vorrei VeronaPolis chiede un confronto (Giorgio Massignan)
La Verona che vorrei, alcune idee per i primi 100 giorni (Luciano Butti)
Massignan come Lorenzetti disegna la città ideale (Enrico Bertelli)
VeronaPolis, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire (Mario Allegri)
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Le relazioni al centro, una scommessa da vincere (Paola Lorenzetti)
Bene Veronapolis, ma la città che vorrei io… (Gianni Falcone)
La Verona che vorrei, traslazione da sogno a realtà secondo Paolo Ricci  (Paolo Ricci)
Fundraising, diamo concretezza ai progetti su Verona (Daniela Motti)
La dimensione sociale della Verona che vorrei (Daniela Motti)
Veronapolis propone un nuovo modello di città (Giorgio Montolli)


Il progetto di VeronaPolis

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3 Comments

3 Comments

  1. lorenzo dalai

    26/02/2016 at 07:02

    bellissimo articolo,quasi totalmente condivisibile. Dico “quasi” perchè vorrei capire quali sono le ambigue alleanze che il PD avrebbe stipulato con la parte responsabile del disastroso stato della nostra città: quando sarebbero state stipulate, con chi e dove? dare retta a voci, senza avere riscontro reale, non è obiettivo; uno scivolone che proprio non ci stava in uno scritto così…
    Lorenzo Dalai

  2. Francesco Premi

    19/02/2016 at 21:26

    Solo un mezzo trapiantato a Siena, ma con radici scaligere ben salde, poteva proporci un’analisi così complessa e al tempo stesso così suggestiva da far pensare che sì, forse una speranza c’è, anche per Verona! Chapeau, Bertelli!

  3. Redazione

    19/02/2016 at 17:13

    Sono due i punti di forza di questo articolo di Enrico Bertelli. Il primo sta nel proporre l’arte e la bellezza come straordinari motori di trasformazione. Non è poi così scontato. L’arte nella storia è stata spesso oggetto di azioni volte a depotenziarne la carica rivoluzionaria. Solo recentemente il marxismo la considera una sovrastruttura legata al modello economico di riferimento mentre il capitalismo, come teorizza lo stesso Marx, pretende di farne una merce. Tutta questa preoccupazione per l’arte a me pare l’inutile tentativo di dominarne la dimensione più intima, perché non contenibile e anche piuttosto imprevedibile.
    Questo per dire che oggi nel post-ideologico, l’arte lasciata finalmente libera potrebbe tornare ad essere una grande spinta al rinnovamento, punto di sintesi tra sensibilità diverse per costruire nuovi modelli culturali condivisi. L’altro punto di forza dell’articolo di Bertelli è la volontà, la voglia di crederci e di scommetterci.

    Giorgio Montolli

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