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Cultura

Dante, gli Scaligeri e il dialetto, una lingua da conservare

Piazza dei Signori (Verona)

Conversare in dialetto con gli amici è costruire la comunità vivendo la complicità delle espressioni condivise

La mia nipotina Clara ha sei anni e frequenta la prima elementare. Sta imparando la lingua italiana, ovviamente, oltre all’aritmetica, e impara anche qualche parola di inglese, con facilità e naturalezza. Ciò che non sa è il dialetto, che in famiglia non viene parlato correntemente; si usano solo alcune espressioni, e anche a scuola evidentemente il dialetto non si usa molto. L’abbandono del dialetto è a mio parere una perdita, un adattamento / abbassamento alla globalizzazione imperante, all’essere tutti uguali, vestire allo stesso modo, avere le stesse abitudini.

I dialetti sono una grande ricchezza, non solo linguistica, ma di civiltà. Conversare in dialetto con gli amici, con i compagni, è costruire la comunità, vivendo la complicità delle espressioni condivise, dei modi di dire e di reagire usati e accettati per secoli. Perdere queste espressioni è come perdere una varietà di semi in agricoltura, usare gli stessi cibi e gli stessi abiti confezionati industrialmente. La lingua nazionale è una necessità, importante certo, ma perdere il substrato volgare è una grossa perdita.

Dante non scriveva solo in latino, ma soprattutto in volgare, il volgare fiorentino, e capiva perfettamente il dialetto veronese, ed anzi è i l primo a descrivere i diversi dialetti della zona veronese nel De Vulgari Eloquentia: era di casa alla Corte di Cangrande, aveva girato tutto il nostro territorio, le basse, la montagna, le zone verso Brescia e verso Vicenza, e l’Italia tutta. Era il ministro degli esteri della Scala, ghibellino in casa ghibellina, alla Corte del Vicario imperiale. I suoi personaggi e le loro storie, elencati all’Inferno in Purgatorio e in Paradiso, li ha conosciuti girando per le corti italiane, più o meno nobili e colte, ciascuna con la sua lingua volgare, le lingue che insieme hanno costruito la lingua nazionale.

La mia Clara sta imparando l’italiano ed anche l’inglese, che è la nuova koiné; ma ignorare il dialetto è sempre una perdita, un limite culturale. Speriamo che abbia occasione di incontrare il dialetto e che lo impari un po’ nella sua vita, come fonte di arricchimento, non solo per i proverbi, le fonti della saggezza popolare, o per le fiabe, con tutte le figure della tradizione, ma anche nel parlare quotidiano, quando il dialetto sa cogliere con una sola espressione tutto un significato, e non è sempre traducibile.

O forse domani dovremo usare il termine italiano “babbo dello gnocco”, invece di papà del gnoco ? o venerdì gnoccolaio, invece di venardi gnocolar?

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Dino Poli

3 Comments

3 Comments

  1. FRANCESCO BUTTURINI

    17/02/2015 at 10:41

    sono sentimentalmente d’accordo con Dino… però – ricordando l’antica amicizia con Coltro, ma anche quella con Marcello Bondardo autore di un prezioso vocabolario del dialetto veronese – ho tanti però.
    – di quale dialetto parliamo?
    – esiste un unico dialetto anche solo pensando a Verona?
    – per non parlare del fantomatico inesistente dialetto veneto che, magari, si rifà a forme letterarie di tipo goldoniano o più antiche
    – dove sta la ricchezza del dialetto, che è una derivazione intrecciata e ridotta di lingue e linguaggi e, quando si aggiorna, lo fa sempre riducendo una o più lingue (per noi: dal francese al greco medievale, dal bavarese al croato ecc.)?
    – è vero che il dialetto può essere un tramite di convivialità domestica?
    – se è vero è anche molto riduttivo nei confronti del problema del fuori le mura di casa

    infine:
    – è già raro sentir parlare e leggere un italiano decente, perché aggiungere altre difficoltà al già sempre più complesso problema della comunicazione?
    – di Dante ce n’è stato uno solo e non mi sembra di vederne spuntare altri all’orizzonte!

  2. SILVANA

    17/02/2015 at 10:32

    Infatti come si fa a tradurre: “Non sta mia impassartene” Espressione cara alla mia nonna Angela.

    • FRANCESCO BUTTURINI

      17/02/2015 at 23:17

      è un dei tanti e numerosi francesismi; viene da “impasse” cieco, vicolo cieco ed è quindi chiaro il significato dell’espressione, ma è chiara la riduzione dialettale che ha alterato il valore fonetico del vocabolo originario: non metterti in un vicolo cieco, non metterti in angolo, attento dove ti metti, dove vai, cosa fai ecc.

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