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Cultura

La mostra di Rosso Fiorentino curata da Sgarbi a Volterra

Al di là della spettacolarità c’è da chiedersi se l’evento evidenzi ancora una volta la crisi dell’arte moderna

Si svolge fino al 31 dicembre la Volterra la mostra Rosso Fiorentino – Rosso vivo complessa e articolata composizione e ricomposizione di opere, visioni, perfomances in cui si trovano coinvolti – che lo vogliano o no, ma se ne accorgono – i visitatori rapiti dagli effetti luminosi delle composizioni digitali, Credo che, forse per la prima volta, un estroso Vittorio Sgarbi, curatore, e un architetto-regista Alberto Bartalini, abbiano tentato di recuperare il gusto e la realizzazione delle grandi scenografie e delle feste leonardesche, quelle che Leonardo ideava e realizzava per i duchi milanesi e per tutti i milanesi. Con altri esiti, però.

Questa volta, l’origine non è un carnevale, ma la Deposizione dalla croce di Rosso Fiorentino, che è sicuramente il centro dell’evento espositivo che coinvolge i più prestigiosi spazi di Volterra, in cinque atti e relativo percorso: dalla Pinacoteca, all’Ecomuseo dell’Albastro, dal Battistero di San Giovanni, al Palazzo dei Priori, dal Museo etrusco Guarnacci, al Teatro Romano, a Volterra.

Si parte da questo singolare ed unico dipinto di Rosso in mostra nella Pinacoteca, opera di un ventiseienne che supera nel 1521 (anno della composizione) tutto quando era stato dipinto prima di lui da Andrea del Sarto (suo rivale), Raffaello, Michelangelo, Leonardo (i pittori della vasariana bella maniera), con uno scatto vitale che solo la modernità italiana e francese di allora riuscirà a comprendere e a valorizzare.

Vasari, nella terza parte delle Vite, chiamava bella maniera la grande pittura e quindi anche questa pittura, fatta di scatti luminosi, di contrasti cromatici, di passaggi tonali inaspettati e mai più ripresi da altri, di verticalità e dinamicità inaudite.

Non era una maniera, bensì la traduzione in immagini di una crisi esistenziale che le giovani generazioni dei primi del XVI secolo già avvertivano in quella che potremmo chiamare la prima crisi della rivoluzione rinascimentale e che Michelangelo interpretò e manifestò in altro non meno drammatico modo, avendo a disposizione spazi che Rosso non ebbe se non più tardi e in Francia, nominato pittore ufficiale del re, con una schiera di collaboratori che, evidentemente, non soddisfacevano la sua ricerca se, come si racconta (e forse è vero) morì suicida il 14 novembre 1540 (era nato a Firenze l’8 marzo 1495).

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Bisogna dunque partire dalla Deposizione, violenta e dinamica rappresentazione di un evento che tutti i pittori avevano dipinto e dipingeranno in maniera decisamente differente: la forte verticalità della pala (esposta in una sala oscurata della pinacoteca e accompagnata da due sculture di Lorenzo Viani e Marino Marini.) alta 3,30 m. con una base di m. 1.96, è per intero dominata da una grande e robusta croce squadrata intorno alla quale, dall’alto verso il basso si muovono nell’atto della deposizione cinque personaggi, e in basso a sinistra tre donne intorno a Maria , mentre sulla destra, il capo fra le mani, Il giovane Giovanni si allontana disperato.

La morte come presenza e non come assenza, fra le voci e gli urli degli uomini che hanno appena staccato il Cristo (il suo volto è sereno, sorride?) e i pianti in basso delle donne e di Giovanni. Una vera e propria rappresentazione che dalla tela ti si racconta e ti aggredisce. Da qui partono i cinque atti, così li chiama l’architetto, dell’esposizione, rappresentata in cinque posti differenti, facendo di Volterra un vero e proprio Museo diffuso.

Nei percorsi, o nei cinque atti, troverete opere Wildt, Gnoli, Cagnaccio di San Pietro, Nespolo (Atto primo); gli affreschi digitali di Stefano Stacchini nell’atto secondo nel battistero di San Giovanni; la contemporaneità più tradizionale – se mi si consente l’ossimoro – nel palazzo dei Priori con Frosali, Fedrighi, Mulas, Tonelli, Todaro e Giani (atto terzo); il bird of Paradise di Inzerillo nel Museo etrusco e le sue mummie di cartapesta (atto quarto) e, infine, nel teatro romano le grandi statue di Mitoraj (atto quinto).

Conclusa la visita (che dura un’intera giornata) mi sono più volte chiesto di fronte a queste opere della contemporaneità e della modernità, a partire proprio da certi recuperi e scomposizioni (Riflessioni quotidiane di Federighi e Red Waste di Todaro-Giani) se Sgarbi e Bartalini abbiano colto nel segno o se , al di là della spettacolarità che certamente avvince e affascina, si dimostri per l’ennesima volta la crisi dell’arte moderna, e, ancora di più, la crisi dell’arte contemporanea, che cerca nelle genialità e nelle trovate un dialogo con il fruitore, che saremmo noi, che spesso non riesce. Anzi, a volte può anche infastidire: sia per l’uso dei materiali di recupero che sanno poco di arte, sia per l’uso del digitale che scomparirà quando le luci si spengono (la Deposizione non si spegne, mai: ha cinquecento anni) e non resterà se non l’effetto, alla fin fine, effimero.

Per questo mi suona inquietante l’appello di Bartalini: «Le invasioni barbariche non possono finire fino a quando l’uomo non si converte al bello. I nuovi barbari non arrivano da nessun luogo lontano. Sono già qui, padroni delle città sempre più brutte, perché senza fede. Contro il Male e il Brutto: l’Arte. In hoc signo vinces e chi è in peccato si penta! Urbanisti, Architetti, Governanti, Incapaci, Indifferenti, Ciechi e Sordi: convertitevi!».

Onestamente (è solo un mio modestissimo parere) io inviterei alla conversione anche i due curatori dell’evento! Siamo in attesa della pubblicazione del catalogo per comprendere meglio le intenzioni e le riflessioni originanti l’evento.

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Francesco Butturini

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