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Cultura

La Valle D’Aosta, patrimonio storico e umano da preservare

Il castello di Sarre in Valle d'Aosta

Nata e cresciuta nella dolce Toscana (con i suoi ondulati declivi dalle morbide sfumature di colore),sono andata a vivere nell’industriosa e industrializzata Milano con un marito che, per amor mio, aveva rinunciato alla conquista di ghiacciai e cime frequentate solo da aquile. Per un giusto compromesso, ho imparato a sciare e ad arrampicarmi un pò. Ci segnalarono un paese in Valle d’Aosta dove trascorrere i fine-settimana praticando questi sport, un paese ai piedi del passo del Gran San bernardo, tutto raccolto in una fenditura della montagna, le case, di pietra grigia, scura, aggrappate una sulla’altra, come per farsi caldo, compagnia, coraggio. I primi giorni ci ospitò l’oste che fungeva anche da tabaccaio e procurava i giornali quotidiani su ordinazione. Il locale dava sull’unica piazzetta, di fronte alla chiesa, un piccolo gioiello ai miei occhi, il pavimento lastricato di pietroni lavorati a scalpello, le pareti affrescate a colori vivaci, ma con garbo, con disegni illustranti miracoli operati da santi del posto. Accanto alla chiesa il castello, un tempo dimora dei conti feudatari,squadrato, rigido nella sua semplicità, spesse mura di pietre quasi ciclopiche, finestre appena più larghe di feritoie, una torre di avvistamento. Ho sempre pensato a quelle castellane: più prigioniere che padrone, come trascorrevano le loro giornate? Filando? Ricamando? Sognando? Piangendo? I nobili mariti certo non si annoiavano, cacciando nei fitti boschi caprioli, camosci, volpi, lepri, animali che presto anch’io avrei incontrato durante le mie escursioni. Poco più su, nel centro del paese, qualche stalla per accogliere in autunno gli armenti di ritorno dagli alpeggi e il locale di raccolta del latte, che veniva ogni sera versato in marmittoni di rame per farne formaggio. Per anni sono entrata nella stanza sbilenca dal pavimento di terra battuta per farmi versare in un pentolino un litro di quel liquido denso e saporoso che non ha niente a che vedere con il latte che compro nelle bottiglie sigillate al supermercato.

Una mia amica che ha sposato un valdostano, lo scorso anno, mettendo ordine nella soffitta della casa del suocero, ha trovato un bauletto di legno contenente i ricordi di una vita, la vita del trisnonno vissuto nella metà dell’800. Assieme a documenti e fotografie, un quadernetto, un breve diario scritto dall’avo quando, quindicenne, decise di scappare da casa per andare in Svizzera e da lì in Francia, in cerca di fortuna. Figlio di notaio e destinato alla stessa carriera, più che la fortuna voleva l’avventura. E la trovò, durissima. Con pochi soldi in tasca, sottratti alla madre, in compagnia di un ragazzo orfano e senza lavoro, si avviò all’alba verso il passo del Gran Bernardo, passando necessariamente dal “mio” paese. Era già autunno, doveva raggiungere i duemila e passa metri di altitudine e i vestiti allora indossati in montagna si riducevano a pantaloni di fustagno, scarponi di cuoio e un mantello di lana grossa. Lontani a venire goro-tex e tessuti tecnologici leggeri, impermeabili e caldissimi.

Il famoso convento con i grandi cani diventati leggenda, che si trova sul versante svizzero, fu costruito nel 1035 da San Bernardo di Mentone per ricoverare, assistere e proteggere i viaggiatori che dovevano passare le Alpi. Si trattava di poveri diavoli che si spostavano in cerca di fortuna, a volte di briganti, ma più spesso, dalla metà dell’Ottocento, di contrabbandieri, cioè contadini che cercavano di integrare i magri guadagni dell’agricoltura. Trasportavano sulle spalle per lo più sale e tabacco ma anche caffè e pellicce. Si spostavano di notte e in inverno per evitare gli incontri con i finanzieri e camminavano affondando nella neve alta, nella bufera e col pericolo continuo di essere travolti dalle valanghe. Anche il ragazzo del diario trovò prima pioggia poi neve e tormenta. Con il compagno equipaggiato più poveramente di lui, trovò ricovero, assistenza e buon vitto nel convento al passo, poi dovettero affidarsi a coloro che incontravano lungo il cammino che si rivelò lungo e ostile. Dormirono felici nei fienili quando furono loro offerti, si sfamarono con pane e formaggio. In Svizzera non trovarono lavoro, dopo quindici giorni di stenti tornarono a casa affrontando un viaggio disastroso per il mal tempo e giunsero più morti che vivi. Il genitore accolse il figlio pentito come il padre della parabola di Gesù. Il ragazzo non rinunciò alla sua fantasia e ai suoi sogni, non divenne notaio, ma si trasferì a Parigi dove divenne un musicista apprezzato.

La storia di questo ragazzo in un certo senso contraddice la vecchia diceria che la gente valdostana è sempre stata ancorata alla terra, alla dura vita quotidiana e manca di immaginazione. Italo Calvino, quando curò la raccolta di favole italiane disse che non aveva trovato niente di valdostano da accludere. Io credo che non cercò abbastanza, forse il compito fu reso arduo dalla lingua, il patois, che ha parole in comune e simili al francese ma è conosciuto solo dai valdostani. Non esiste più la veillà, il radunarsi nelle stalle di famiglie o intere piccole comunità e raccontarsi storie, favole, accadimenti in cui si mescolavano la vita e la morte, il contingente e il soprannaturale, il temporale e l’eterno, è finita l’epoca di questo aggregarsi. Sono rimaste, sparse nella valle, chiesette, cappelle, edicole, dedicate a santi e eremiti del luogo e sono oggetto di processioni e incontri quasi rituali cui partecipano con piacere e fedeltà persone di tutte le età. Questi santi e eremiti sono oggetto di racconti che oscillano tra realtà, favola, leggenda. I miracoli da loro operati si sono arricchiti nel tempo di particolari che variano da racconto a racconto. Importante è che fanno parte di una memoria collettiva, che lega le persone a una storia, a una tradizione, a un territorio, e così fa comunità .

E’ vero che sta scomparendo l’economia agricola, che si è disintegrata la famiglia patriarcale in valle d’Aosta come dappertutto in Italia, che i turisti hanno portato ricchezza ma hanno anche inevitabilmente influenzato la cultura. E’ vero che la Valle d’Aosta sta cambiando volto:hanno costruito autostrade , funivie, centri residenziali, piste da sci lisce come tavoli da biliardo. Ogni anno vengono aperti nuovi rifugi dove puoi consumare piatti squisiti e puoi anche farti una sauna per smaltire la fatica della salita. Gli allevatori, i contrabbandieri e i contadini sono diventati guide e maestri di sci.

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Sarà possibile preservare e mantenere quello che è rimasto di naturale, di selvaggio? Mi auguro che questo cambiamento veloce, senza sosta, non impoverisca i ricordi, non porti allo sradicamento dei rapporti. Se non c’è cultura, se non ci sono esperienze condivise, se non c’è dialogo, se non c’è senso di appartenenza, non c’è comunità e l’uomo ha bisogno di vissuto, di legami. Io credo che per avere un’identità si ha bisogno di legami, i legami ti aiutano ad orientarti nella vita.

Bona Fiori

3 Comments

3 Comments

  1. EMMA MIGNANI

    12/09/2014 at 19:45

    Bellissima e appassionata descrizione naturalistica, ma ancora più affascinante il racconto del trisavolo fuggiasco; queste testimonianze di tempi lontani mi procurano emozioni profonde. Grazie all’autrice
    Emma Mignani Carraro

  2. CELESTINA

    12/09/2014 at 11:31

    Bona carissima, ho letto e riletto con piacere il tuo “contributo” alla Valle d’Aosta. Complimenti per tutto il contenuto e per la perfetta stesura che ha reso la lettura del testo molto scorrevole e piacevole. Un abbraccio.
    Celestina

  3. LUISA

    10/09/2014 at 10:08

    Anch’io per amore ho cominciato a conoscere la montagna le sue vallate e le maestose cime. Non conosco però la Valle d’Aosta ; quanto descrivi in modo così coinvolgente mi invita a rimediare appena possibile alla mia lacuna. Molto toccante e molto vera la seconda parte del tuo racconto, sull’importanza di mantenere vive le tradizioni e il ricordo di chi siamo stati. Senza radici non c’è futuro. Ciao.
    Luisa

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