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Spettacoli

«La trattativa» della Guzzanti, fa luce sul rapporto Stato Mafia

Sabina Guzzanti

VENEZIA. La Trattativa ci fa capire che la storia non è scritta dalle sentenze dei tribunali perché il processo penale si occupa solo di responsabilità personali e mai collettive. Questo compito spetta ad altre discipline.

E’ disdicevole utilizzare una negazione per definire qualcosa di positivo, ma in questo caso risulta molto più efficace procedere in tal modo. La Trattativa di Sabina Guzzanti, regista, sceneggiatrice ed attrice del film presentato alla Mostra internazionale del cinema di Venezia, non è un film contro Silvio Berlusconi, come in altre occasioni è stato lecito considerare. Berlusconi ne esce infatti come una figura di secondo piano, nonostante abbia caratterizzato un ventennio della storia italiana. Insomma, poco più che un esecutore, quasi un qua-qua-ra-quà, per usare il linguaggio dei mafiosi che, a loro dire, non avrebbero mai potuto accoglierlo nell’onorata società perché ingombrante ed impresentabile per lo stile di vita adottato. La stilettata più pesante che gli viene servita.

Il film si colloca in una suggestiva dimensione di mezzo, tra il documentario ed il film. Del primo assume il carattere rigoroso del lavoro sulle fonti che devono supportare la ricostruzione dei fatti, che anche in conferenza stampa, Sabina Guzzanti definisce «inconfutabili», lanciando quasi una sfida alle istituzioni. Infatti, se avessero argomenti e prove convincenti dovrebbero quanto meno procedere ad una querela di parte. Quasi certamente non sarà così, perché l’impianto della narrazione appare solido e stringente. Tutto inizia, come la storia della seconda Repubblica, con la caduta del muro di Berlino, per altro emblematicamente ripresa nel filmato, che trascina con sé tutti quegli apparati ideologici ed organizzativi che avevano garantito il quadro politico dualistico uscito dalla seconda guerra mondiale con la DC al governo e il PCI all’opposizione.

Un equilibrio stabile all’interno del quale la mafia era riuscita a garantirsi impunemente il proprio giro miliardario di affari. Non introducendosi organicamente nelle istituzioni, ma sapendo di poter contare su personalità di riferimento che, una volta coinvolte, non avrebbero più potuto uscirne in quanto diventate oggetto di facile ricatto. Questa la tattica. Anzi, più questi uomini eccellenti erano stimati dall’opinione pubblica per il loro “senso dello Stato”, e quindi erano inavvicinabili da qualsiasi soggetto compromesso, mafiosi compresi, tanto più erano preziosi per la causa malavitosa. Quindi nessun contatto diretto, ma solo attraverso intermediari, appartenenti di volta in volta alle stesse forze dell’ordine, al mondo degli affari, ai servizi segreti sempre in odore di eversione, spesso in alleanza con la destra neofascista.

Del cinema il lavoro assume invece gli efficaci strumenti espressivi contaminati però apertamente con il teatro. Sono infatti semplici operatori cinematografici, tra cui la stessa Guzzanti, a decidere di ricostruire sulla scena la storia della mafia che ha caratterizzato i sanguinosi primi anni ’90. Non sono i sei personaggi in cerca di autore che si aggirano come ombre sul palcoscenico, ma un gruppo spontaneo di attori che non hanno bisogno di alcun autore, perché questa volta sanno benissimo cosa vogliono rappresentare. Quindi non Pirandello ma Brecht. Ormai la DC, logorata dagli scandali e scaduta agli occhi dell’opinione pubblica anche più conservatrice, non può più oggettivamente garantire lo spazio di manovra mafioso. Il timore che questa volta, a differenza del ‘48, “i comunisti” possano prendere il potere è molto forte. Le bombe, comprese quelle che hanno ucciso FalconeBorsellino, sono espressione di questa furiosa risposta mafiosa alla paura di perdere il potere. La mafia le pensa proprio tutte, anche quella, poi abbandonata, di fondare essa stessa un partito in grado di dominare tutto il Sud Italia in una logica di federalismo tricefalo che sembra proprio richiamare l’originario progetto leghista. Rimane quindi il dubbio di questa primogenitura…. Sempre tutto ampiamente documentato da carte processuali e da altre fonti attendibili. Lo Stato, debole e screditato, teme da parte sua di non riuscire a contrastare l’offensiva di terrorismo dilagante e quindi cerca di mettersi in contatto con “l’ala moderata” della mafia, quella di Provenzano, che si contrappone all’altra maggioritaria e oltranzista del sanguinario Totò Riina. Questi i prolegomeni della trattativa stato-mafia.

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Il 28 giugno 1992 il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro nomina Giuliano Amato presidente del Consiglio, il ministro degli interni Vincenzo Scotti, che aveva collaborato con Falcone, viene sostituito con Nicola Mancino e il ministro della giustizia Claudio Martelli sostenitore del carcere duro per i mafiosi cede il posto all’accademico Giovanni Conso che l’anno dopo non proroga il provvedimento di carcere duro per circa 400 mafiosi e questo dopo che le bombe mafiose da Palermo scoppiano anche a Roma e poi a Firenze.
Vito Ciancimino svela il nascondiglio di Totò Riina che non viene perquisito dai Ros dei carabinieri, nonostante abbiano proceduto all’arresto del boss mafioso. Nel suo covo si sarebbero certamente trovati documenti compromettenti la classe politica coinvolta, lì archiviati per fini ricattatori, come da prassi mafiosa. Il fatto, sempre documentato, fa imbestialire l’allora Procuratore Giancarlo Caselli. Il collaboratore di giustizia Luigi Ilardo riferisce al colonnello dei carabinieri Michele Riccio il nascondiglio di Bernardo Provenzano su cui stanno però puntando le istituzioni, attraverso una logorante trattativa tra il Ros dei carabinieri Mario Mori e lo stesso Vito Ciancimino che si fa da tramite con Provenzano. Incontri tra i due confermati anche dall’ex-ministro Martelli. Mori si limita a far scattare alcune fotografie sul posto indicato e Ilardo viene ammazzato pochi mesi dopo.
Seguono depistaggi facendo confessare crimini non commessi a qualche derelitto. Mancino fa una lunga serie di telefonate a
Loris D’Ambrosio, consulente giuridico del capo dello Stato Giorgio Napolitano per un intervento a suo favore, mentre viene interrogato dai magistrati di Palermo sulla trattativa Stato-Mafia. Le registrazioni di quelle telefonate vengono distrutte. Il 7 marzo 2013 parte il processo sulla trattativa e tutti i giochi che sembravano chiusi vengono riaperti, grazie anche alle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza.

Durante tutto questo lungo periodo Marcello Dell’Utri lavora per fondare Forza Italia, come pubblicamente dirà anche Berlusconi, e per saldare gli interessi degli imprenditori del Nord con quelli della mafia del Sud che, rassicurata da un suo figlioccio, punta tutto su Berlusconi coltivando “in ogni modo” il consenso degli elettori a suo favore e ricevendo come contropartita ampie rassicurazioni sulla riforma della Giustizia e non solo.

Tutto il resto lo sapevamo già. Attendiamo pure la fine di questo processo, ma, come ribadito sempre dalla Guzzanti in conferenza stampa, la storia non è scritta dalle sentenze dei tribunali, in cui la condanna o l’assoluzione dipende da variabili procedurali e probatorie che possono avere anche carattere accidentale. Il processo penale si occupa solo di responsabilità personali e mai collettive. Questo compito spetta ad altre discipline. Ma forse è proprio questo che il “ventennio” voleva farci dimenticare.

Paolo Ricci

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Written By

Paolo Ricci, nato e residente a Verona, è un medico epidemiologo già direttore dell’Osservatorio Epidemiologico dell’Agenzia di Tutela della Salute delle province di Mantova e Cremona e già professore a contratto presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia in materie di sanità pubblica. Suo interesse particolare lo studio dei rischi ambientali per la salute negli ambienti di vita e di lavoro, con specifico riferimento alle patologie oncologiche, croniche ed agli eventi avversi della riproduzione. E’ autore/coautore di numerose pubblicazioni scientifiche anche su autorevoli riviste internazionali. Attualmente continua a collaborare con l’Istituto Superiore di Sanità per il Progetto pluriennale Sentieri che monitora lo stato di salute dei siti contaminati d’interesse nazionale (SIN) e, in qualità di consulente tecnico, con alcune Procure Generali della Repubblica in tema di amianto e tumori. corinna.paolo@gmail.com

2 Comments

2 Comments

  1. REDAZIONE

    08/09/2014 at 08:25

    Sul film La trattativa di Sabina Guzzanti il 7 settembre è intervenuto su Il fatto quotidiano l’ex magistrato Giancarlo Caselli. Intervento che pubblichiamo in questo spazio proprio perché ci siamo occupati del film in questione. Scrive Caselli:

    Gentile Direttore: vi sono alcune considerazioni, a margine del film La trattativa di Sabina Guzzanti, presentato a Venezia e ieri alla festa del Fatto, che ritengo necessario fare. Dopo le stragi mafiose del 1992 ho chiesto – per dovere e spirito di servizio – di essere trasferito dalla “comoda” Torino a Palermo, ancora insanguinata e sconvolta dall’assassinio di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e di quanti erano con loro a Capaci e in via D’Amelio. E’ cominciata così una difficile e rischiosa esperienza di quasi 7 anni a capo della travagliata Procura di quella città.
    Raccontare con tecnica da “cabaret” la pagina grave e oscura della mancata sorveglianza (certamente non addebitabile alla Procura) e della conseguente mancata perquisizione del “covo” di Riina è offensivo e non può cancellare né far dimenticare gli importanti positivi risultati ottenuti in quei 7 anni di duro e pericoloso lavoro dagli Uffici giudiziari palermitani, in stretta e preziosa collaborazione con le forze di Polizia. Un mare di arresti, pentimenti, processi e condanne (650 ergastoli!); sequestri di arsenali di armi micidiali e di patrimoni illeciti (per 10 mila miliardi di vecchie lire); processi anche a imputati “eccellenti” collusi con la mafia (Contrada , Andreotti e Dell’Utri fra gli altri): questa la sintesi del bilancio di 7 anni, cui deve aggiungersi l’acquisizione della prima e decisiva confessione di uno degli autori materiali della strage di Capaci, Santino Di Matteo, resa – su sua richiesta – proprio al sottoscritto.
    Questi risultati – ottenuti superando difficoltà e ostacoli a volte incredibili – hanno contribuito fortemente a salvare la democrazia italiana dal tracollo che le stragi mafiose volevano e sembravano aver reso inevitabile (“E’ tutto finito; non c’è più niente da fare”: sono le parole di Nino Caponnetto al funerale di Borsellino che nessuno può scordare…). Non tenere conto anche di questo incontestabile dato di fatto, limitandosi a un piglio di dileggio gratuito, equivale a rendere un pessimo servizio alla rigorosa e completa ricostruzione di quanto realmente accaduto che l’autrice del film ritiene essere rigorosa e completa. Grazie per avermi ospitato, consentendomi di scrivere parole semplici ma dovute: per rispetto alla verità, alla mia famiglia e a tutti coloro che a vario titolo (magistratura, amministrazione, polizia giudiziaria, cittadini) hanno fatto con me, condividendo tanti sacrifici, un pezzo di strada che, senza falsa modestia, possiamo rivendicare con orgoglio.

    da Il Fatto Quotidiano del 7 settembre 2014

    • PAOLO RICCI

      08/09/2014 at 20:24

      A causa di un errore materiale la risposta che ho inviato contestualmente al Fatto e a Verona in non è stata trasmessa a quest’ultima testata. Provo a riassumere in breve. Premessa la mia grande stima per il lavoro dell’ex-Procuratore Caselli, bisogna distinguere tra espressione artistica utilizzata da un film e fatti in questo riportati. Mi pare proprio che la mancata perquisizione del covo di Riina dopo il suo arresto sia un fatto e certamente molto grave, sopratutto se era in essere una sorta di trattativa separata e segreta delle Istituzioni con emissari di Provenzano. Se la responsabilità non è nè di magistratura, ne di polizia e nè di carabinieri, di chi è. A domanda, cortesemente, risponda dott. Caselli.
      Paolo Ricci

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