MOSTRA DEL CINEMA La Zuppa del demonio, espressione utilizzata da Dino Buzzati negli anni ’60 per descrivere la colata dell’acciaio, è diventata il titolo del filmato di Davide Ferrario.
La Zuppa del demonio, espressione utilizzata da Dino Buzzati negli anni ’60 per descrivere la colata dell’acciaio, è diventata il titolo del filmato presentato quest’anno nella sezione documentari alla Mostra internazionale del cinema di Venezia. La regia è di Davide Ferrario che ha sapientemente elaborato numerosissime testimonianze contenute nell’Archivio nazionale del film d’impresa istituito ad Ivrea. Ne è uscito un eccezionale mosaico costruito da immagini, musiche e citazioni letterarie, lungo un periodo che corre dal secondo dopoguerra fino alla crisi petrolifera d’inizio anni ’70. Si può dire che in questi decenni si realizza in Italia, ma non solo, il mito di Prometeo, scritto da Eschilo oltre duemila anni prima. Un mito che ha incontrato la condivisione delle opposte ideologie che hanno dominato il secolo del lavoro.
Lenin e Majakovskij hanno applaudito con pari entusiasmo di Rockefeller “le magnifiche sorti e progressive” dell’umanità. Le uniche perplessità ed inquietudini menzionate nel filmato ed espresse dagli intellettuali, come Buzzati, Pasolini, Piovene, Bocca e molti altri, erano di natura antropologica e riguardavano unicamente il deterioramento delle relazioni sociali prodotte da quello che all’epoca veniva chiamato “consumismo”. Non un seppur timido accenno da parte di alcuno all’immane danno che si stava perpetrando alla Natura, percepita ancora come inesauribile serbatoio di risorse a disposizione dell’Uomo. Nessuna preoccupazione per il fatto che si stava recidendo il ramo su cui eravamo seduti.
Scorrono le immagini impietose di ulivi secolari divelti, di spiagge omeriche spianate per far posto a imponenti colonne di distillazione e giganteschi serbatoi di benzine o prodotti chimici di sintesi. Viadotti imponenti uniscono monti e colline, fiumi e torrenti formano immensi bacini di acqua destinata ad azionare le turbine. Altiforni si ergono verso il cielo reso plumbeo dalle loro emissioni. Enormi navi (imbottite di amianto) vengono varate dai porti delle principali città marittime. L’Italia è diventata tutta un febbrile cantiere. Questo ha significato lavoro e ricchezza. Il mitico PIL, oggi ridotto a prefisso telefonico, rincorreva la doppia cifra. Ma non solo, la classe operaia, diventata la spina dorsale dell’economia del Paese, assurgeva a riferimento etico esemplare.
Nonostante il lavoro ancora molto manuale logorasse i corpi e la vita di tanti italiani, il riconoscimento sociale per l’importanza dei numerosi sacrifici sembrava poter riscattare anche le afflizioni degli ultimi rendendoli in qualche modo partecipi dei grandi successi raggiunti dalla tecnica. Non a caso le grandi fabbriche risposero con ambiziosi progetti sociali che aspiravano a sostenere e seguire “i propri” dipendenti dalla culla alla tomba. Non va dimenticato che dove giunge l’industria arriva anche la scolarizzazione, l’emancipazione sociale e la coscienza politica che va alimentare i Partiti di massa e le grandi organizzazioni sindacali. Quindi, nonostante la guerra fredda, il mito del progresso non incontra alcun avversario interno od esterno. La FIAT approda addirittura in URSS con i suoi stabilimenti per la produzione della 124 che prende il nome di LADA.
I filmati commissionati dalle aziende italiane ai più grandi registi rappresentano tutto questo come una grande marcia trionfale. Nessun tentativo di occultare la devastante aggressione della Natura in atto, proprio perché la percezione del delitto era inesistente. Forse l’immagine più sconvolgente è quella in cui migliaia di carcasse di auto FIAT vengono gettate in mare in pompa magna quasi si consumasse uno sposalizio tra la Tecnica e la Natura. Le parole usate esprimono un simile concetto e siamo già nei primi anni ‘70. Prevaleva l’élan vitale accompagnato da una grande e ingenua gioia, per riprendere i termini di Giorgio Bocca a chiusura del filmato. Soltanto la crisi petrolifera del 1973 fa emergere per la prima volta la precarietà e la fragilità delle fondamenta su cui si reggeva il progresso raggiunto. Ma devono passare ancora alcuni anni prima che nella coscienza collettiva si plasmi un embrione di idea ecologista, per molto tempo ancora vessata sia dalla destra che dalla sinistra politica.
Alla domanda, rivolta a regista e produttore in conferenza stampa, se negli archivi esplorati fossero emersi documenti che in qualche modo ponessero, seppur in nuce, il problema dell’impatto ambientale e sanitario dell’industrializzazione, la risposta è stata unanime e convinta: nessuna traccia di simili riflessioni lungo tutto quel periodo. Eppure la scienza era già in possesso di molte conoscenze che soltanto in futuro sarebbero state rese di dominio pubblico. Ma la Scienza non è e non è mai stata neutrale rispetto al Potere, anzi. Ed allo stato attuale dei fatti nulla ci fa ancora pensare che lo possa essere in futuro. Come diceva Giulio Maccacaro, che nel 1972 fondò Medicina Democratica, “scienza è potere”.
Paolo Ricci

Paolo Ricci, nato e residente a Verona, è un medico epidemiologo già direttore dell’Osservatorio Epidemiologico dell’Agenzia di Tutela della Salute delle province di Mantova e Cremona e già professore a contratto presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia in materie di sanità pubblica. Suo interesse particolare lo studio dei rischi ambientali per la salute negli ambienti di vita e di lavoro, con specifico riferimento alle patologie oncologiche, croniche ed agli eventi avversi della riproduzione. E’ autore/coautore di numerose pubblicazioni scientifiche anche su autorevoli riviste internazionali. Attualmente continua a collaborare con l’Istituto Superiore di Sanità per il Progetto pluriennale Sentieri che monitora lo stato di salute dei siti contaminati d’interesse nazionale (SIN) e, in qualità di consulente tecnico, con alcune Procure Generali della Repubblica in tema di amianto e tumori. corinna.paolo@gmail.com
