Grace di Monaco, film che ha aperto il 67° Festival di Cannes, mostra come i tempi moderni non giovino alle principesse. I loro occhi lucidi di lacrime non sempre hanno storie da raccontare anche se c’è chi tenta di farle diventare fenomeno sociale. Noi “ragazze ”geneticamente predisposte ad ascoltare e credere nelle favole, ancora non abbiamo imparato ad elaborare il lutto dovuto alla mancanza di lieto fine, così continuiamo a parteggiare per Grace come per Lady D o Masako e andiamo avanti a nutrire il nostro immaginario con le loro storie.
Per questo, nonostante giudizi che ritengo autorevoli me ne sconsigliassero la visione non ho saputo resistere. L’occasione era troppo ghiotta. E poi scusate, Nicole Kidman nei panni di Grace Kelly? Come avrei potuto resistere al fascino fiabesco, quasi surreale di due icone simili? Mai avrei pensato di annoiarmi.
Quello che ho visto invece, è stato un film noioso, a tratti superficiale, privo di spessore. Il film di Oliver Dahan, ambientato nel 1962, sei anni dopo le nozze tra la star hollywoodiana Grace Kelly e il principe Ranieri di Monaco, interpretato da Tim Roth, voleva raccontare la storia di uno dei miti dello star system, la grande diva che diventa niente meno che principessa. Le pellicole che, come questa, partono da un presupposto biografico sono sempre difficili da realizzare perché trovare il giusto registro narrativo è tutt’altro che semplice: non si deve essere troppo didascalici pur avendo l’obbligo di mantenere quell’aderenza storica che renda il film quanto meno plausibile.
Il regista non è nuovo ad imprese del genere, infatti con La vie en rose, film del 2007, aveva saputo restituirci un ritratto di donna complesso, come quello della cantante Edith Piaf. Aveva saputo ricostruire atmosfera, pathos, complessità. Purtroppo per noi, con Grace di Monaco non è riuscito nell’obiettivo. Ma il background di queste due storie non è il medesimo e forse il problema sta proprio qui.
Da accanita consumatrice di favole, liete o tristi non importa, non lo posso perdonare. Qual è il senso di un simile film? Perché farlo?
Perché trasformare due icone di bellezza in un brutto (bruttissimo?) film? Nel trionfo della peggiore Hollywood, quella dell’industria che vuole solo macinare denaro e alimentare uno star system, che non avendo più favole da raccontare, si crogiola nell’autocompiacimento. Eh sì! A volte, il male peggiore non è quello di credere alle fiabe.
Cinzia Inguanta

Nasce a Firenze il 4 giugno 1961, sposata con Giuliano, due figli: Giuseppe e Mariagiulia. Alcuni grandi amori: la lettura, il cinema, il disegno, la fotografia, la cucina, i cinici, le menti complicate e le cause perse. Dopo la maturità scientifica, s’iscrive al corso di laurea in medicina e chirurgia per poi diplomarsi in design all’Accademia di Belle Arti Cignaroli. Nel 2009 s’iscrive alla Facoltà di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca. Giornalista pubblicista dirige Radio Popolare Verona, già direttrice del magazine online Verona-IN con il quale continua a collaborare coordinando la redazione spettacoli e scrivendo di libri. Nel 2006 ha curato la pubblicazione di La Chiesa di Verona in Sinodo e di Il IV Convegno Ecclesiale Nazionale, nel 2007 di Nel segno della continuità. Nel 2011 l’esordio letterario con la pubblicazione del suo primo romanzo Bianca per la casa editrice Bonaccorso. Alcune sue poesie sono pubblicate nel 2° volume della Raccolta di Poesie del Simposio permanente dei poeti veronesi (dicembre 2011), altre sono pubblicate nella sezione Opere Inedite sul blog dedicato alla poesia di Rainews. cinzia.inguanta@email.it
