La Teresona portava scritti nel suo volto i segni di una vita dedicata al lavoro, attraversato dalla rassegnazione e dalle privazioni
Sono nata nel 1939 in un piccolo sperduto pae-se della Bassa Veronese e dai ricordi della mia infanzia mi tornano volti, immagini e parole che appartengono a un passato ormai dimenticato, legato a forme ancestrali di vita che si perdono nella notte dei tempi. Fino alla metà del secolo scorso, soprattutto in campagna, l’infanzia spartiva col mondo adulto la vita della casa, le pause dal lavoro, il piacere del racconto.
I tempi nuovi sono venuti dopo la seconda guerra mondiale con l’arrivo del vento americano, le conserve in scatola, gli allevamenti del bestiame in grande, la razionalizzazione delle colture, le nuove macchine agricole. Prima, la vita scorreva lenta e solenne, ritmata sull’avvicendarsi delle stagioni, ognuna coi suoi lavori e i suoi riti. E insieme all’inverno veniva il tempo del filò. Rispolverando ricordi quasi dimenticati, riporto a galla le particolari emozioni vissute di quel tempo bambino. Rivedo la mia vecchia narratrice, la Teresa, per noi la Teresona.
Alle prime ombre del buio ci si trovava tutti in stalla resa tiepida dal fiato di quattro buoi, qualche vacca, in fondo al recinto, la Balda, regina delle cavalle da tiro, due pecore. Fieno nelle greppie, lento ruminare delle bestie in piedi o stese sul letto di paglia rinnovata. Da mezzo il basso soffitto intessuto di ragnatele, legata a un fil di ferro, pende una lampada a petrolio accesa. Sotto, seduta al centro sopra l’unica seggiola impagliata, lei la Teresona. Intorno, appollaiati su balle di paglia ci siamo tutti noi, figli di padroni e contadini mischiati insieme, affratellati nei giochi, nelle birbonate e da quell’ora di tuffo nell’orrorifico fantastico delle storie della Teresona. Prima di andare a letto vogliamo che ce ne racconti ancora una.
Già trema un brivido d’attesa in fondo al cuore: fra poco ci sarà svelato l’arcano volto dell’oltre tomba: spiriti, fantasmi, morti che tornano, lumere che inseguono i viandanti. La Teresona sferruzza veloce con gli occhialetti posati sul naso. Ha fatto la sua giornata di lavoro. È in piedi dall’alba: ha lavato i panni al fosso rompendo l’acqua gelata, ha preparato le verdure per il minestrone di domani, ha accudito al pollame, ha portato da mangiare ai maiali, ha spazzato la casa, aiutato il suo uomo nei campi e in stalla “a guernar” le bestie. Ha detto il rosario e le orazioni della sera. Ora si concede a noi.
“Gh’era na òlta na butela, che ghe piasea tanto, ma tanto ’ndar a balar. Fato stà che la gà vù ’n butin e ’lora ghe cognéa star casa parché no la savea ’n do metarlo. Era pena passà coalche mese che, cazziga, la óia de ’ndar a balar la le tormentaa. La se strussiaa dì e note coando la sentea la musica de l’armonica rivar da la piassa. Na sera non la ghe ’n pol pì: la indormensa ’l butin e la lo mete drento ’n te la so sesta, ben coerto. Po’ la se veste, la se pètena, la se pitura, la se mete le scarpe, e via de scondon, traèrso i campi la riva ’l balo. E la bala, e la bala par tuta la sera fin che ven note fonda. Alora la torna a casa e la càta la sesta úda. De ’l butin gnanca l’ombra. La vàrda dapartuto: la gà paura che l’àbia sbranà coalche bestia. La se sènte morir. Dopo ghe vegne ’n mente che le strie le pol averlo sconto da coalche parte. Alora la vèrze l’armaro, la vàrda soto ’l leto, ma gnente. La vàrda soto la legnara, ma gnente. La vàrda ’n te ’l casson de la polenta e gnente. Po’ la vàrda soto la tola e ’lora la éde ’l so butin drito, rente la gamba de la tòla, duro, s-cinco come ’n bacalà. La lo toca e la sènte che l’è fredo come ’n toco de piera. Le strie le l’avea trasformà ’n t’un butin de piera, cossì l’à ’mparà che coando se gà butini picoli se cògne starghe drio e no ’ndar a balar”. 1
Le storie della Teresona finivano sempre con la sentenza morale. “Bison star ’tenti che ’l diaolo ’l te ciàpa e te porta a l’inferno”. E “De sera non se gà da catarse ’n vòlta coando gh’è scuro parché le lumere le te core drio e le te porta ’n simitero e i morti i te liga e i te ména ìa con lori”.2
La Teresona portava scritti nel suo volto i segni di una vita dedicata al lavoro, attraversato dalla rassegnazione e dalle privazioni. Forse anche lei, come tante altre donne della sua generazione, una volta giunta alla vecchiaia è diventata un personaggio da fiaba e si è seduta su un trono di paglia per raccontare le sue storie. La grossa Teresa vestita di nero, la nonna di tutti, veniva da un altro tempo e là è tornata a raccontare le sue “fole” paesane. Dovunque voi siate ora, donne dal grande cuore, sappiate che vi portiamo vive dentro di noi. Noi che abbiamo avuto il privilegio di ascoltarvi.
Elisa Zoppei
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