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Cultura

Tradizioni: il restauro di contrada Valle a Velo Veronese

Contrada Valle

«La Comunità montana e il Parco sono intervenuti con determinazione ma forse avrebbero dovuto spendere maggiori energie nel pensare in che cosa si vuole trasformare contrada Valle». Intervista con due giovani architetti: Alberto Franchini e Michele Ganzarolli

Contrada Valle di Velo Veronese, un antico complesso in pietra alla base dei pendii che scendono da Parparo, poco a nord della frazione di Camposilvano. Un luogo sorto quando era il lavoro a definire l’organizzazione e la geografia degli spazi: la casa accanto alla stalla con il fienile, la ghiacciaia lì a due passi, vicino alla pozza che d’estate era abbeveratoio per il bestiame. Dopo decenni di abbandono, grazie all’iniziativa della Comunità montana e del Parco della Lessinia, un lungo restauro ha permesso alla contrada di risollevarsi dal degrado.

L’intervento, seguito dall’architeto Cristiana Rossetti, è durato quasi dieci anni: dall’acquisto delle strutture e dei terreni limitrofi nel 2003 sino allo scorso agosto, quando l’inaugurazione ha scoperto ai visitatori il nuovo volto del complesso. Per la copertura economica si è attinto ai fondi del Programma obiettivo competitività regionale e occupazione, finanziato dalla Regione, dallo Stato e dall’Unione Europea, e la spesa complessiva si è fermata poco sotto il milione e mezzo di euro. Il proposito che sembra aver sostenuto il complicato iter dei lavori è quello di istituire qui un centro dove le nuove generazioni possano conoscere il proprio passato, uno spazio aperto alle Università e alla cittadinanza, dove il paesaggio e l’architettura della Lessinia possano essere oggetto di studio e di ricerca. Proprio per questo motivo parliamo del restauro con due studenti di architettura, Alberto Franchini e Michele Ganzarolli, entrambi prossimi alla laurea magistrale presso lo IUAV di Venezia.

– Michele, tu sei veronese: da dove nasce l’interesse per l’architettura della Lessinia?

Alberto Franchini e Michele Ganzarolli

Alberto Franchini e Michele Ganzarolli


«Le contrade e le malghe di queste montagne sanno tradurre concretamente temi riguardanti il rapporto fra l’opera e il paesaggio con i quali l’architettura di oggi è impegnata a confrontarsi. In Lessinia si può capire come questioni determinanti, e troppo spesso trascurate, possono trovare una risposta immediata proprio nell’essenzialità. Quel che mi ha sempre affascinato è la naturalezza con cui queste abitazioni assolvono le funzioni primarie dell’abitare e del lavorare, costruite sì con abilità tecnica, ma soprattutto con coscienza delle relazioni che l’architettura deve rispettare».

– Tu Alberto sei, invece, trevigiano e la Lessinia è per te una scoperta…
«Sì, la scoperta non solo di un paesaggio affascinante, ma anche di realtà architettoniche sorprendenti per l’intuitività delle soluzioni e per la loro eleganza. Nell’osservare queste stalle e queste case, si rimane colpiti soprattutto dalla condivisione che si genera fra lo spazio dell’uomo e lo spazio della natura, che si incontrano già sulla soglia delle porte, senza la frammentazione, le recinzioni a cui siamo abituati. Gli stipiti marcano il limite fra l’abitato e il naturale, due mondi interagenti, entrambi aperti l’uno all’altro».

– Edifici costruiti da uomini che evidentemente non sentivano il bisogno di marcare distinzioni fra entità che appartenevano alla stessa dimensione. Tale aspetto rimane invariato nel restauro?
«Qui a contrada Valle, salendo la strada d’accesso attraverso il bosco, si mostra subito evidente una fitta rete di muretti, in pietra locale certo, ma che demarcano i livelli e suddividono lo spazio davanti e dietro le case. Direi che sotto questo aspetto il restauro sembra non aver letto le tracce suggerite dal paesaggio della Lessinia: piuttosto si è lasciato influenzare dalla tendenza diffusa a delimitare, ad assorbire la natura dentro l’ambiente umano a piccoli frammenti. Questo porta anche a dei paradossi: le lastre utilizzate per marcare il confine della proprietà a monte sono sì elementi propri della tradizione in Lessinia, ma da sempre sono state usate per delimitare i pascoli afferenti alle singole malghe, quindi per definire lo spazio riservato agli animali, non certo dove vivono gli uomini».

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– Un errore di concetto, quindi?
«In architettura, come in tutte le altre discipline, ogni fraintendimento di concetto inevitabilmente si traduce in errori di forma. Qui molti appaiono evidenti. Siamo nel contesto di un restauro che vuole restituire agli edifici il loro assetto originario, di conseguenza si mantengono inalterati gli ambienti interni, si impiega la canna di palude per le coperture come avveniva in passato ecc., ma poi si costruiscono i bagni all’esterno, sullo spiazzo ai piedi della contrada, in cemento rivestito di lastre di pietra, come per nascondere l’oggi dietro a un segno del passato».

– Il presente appare però evidente nella parte un tempo crollata e ora ricostruita, su suggestione dell’architetto Paolo Portoghesi, con un’ampia superficie in vetro. In questo caso c’è una precisa volontà di segnalare lo scarto del nuovo rispetto all’originale.
«Certo, ma qui lo scarto si misura più di tutto fra l’eleganza delle linee più antiche e l’inconsistenza delle soluzioni moderne, come la putrella in ferro impiegata per sorreggere il tetto ricostruito: in passato la finezza tecnica suppliva alla penuria di mezzi, oggi si agisce in modo diametralmente opposto».

– Abbiamo parlato di fraintendimenti concettuali, quale inciampo ravvisate nel progetto di questo restauro, a cosa ricondurre le imperfezioni che avete considerato?
«Gli antichi abitati della Lessinia derivano il loro incanto dal modo intuitivo in cui sono pensati. È lo stesso principio da cui si genera lo splendore delle nostre città medievali: anche qui l’architettura si esprimeva sulla base delle necessità e in una dimensione di immediatezza giustificata dagli usi e dai bisogni. Chi abitava la montagna veronese, ed era dedito all’allevamento del bestiame o al commercio della legna e del ghiaccio, sapeva trasformarsi in architetto e scalpellino e trovare sul luogo le risorse tecniche e materiali per dare risposta alle proprie esigenze. All’origine di ogni intervento costruttivo stava quindi la funzione. Nel caso del restauro di contrada Valle è proprio questo a essere trascurato. Paradossalmente, un restauro che si propone di recuperare l’architettura originaria, finisce per falsarla perché ne trascura i presupposti, tralasciando di rinnovarne l’elemento essenziale, la destinazione per cui era nata. Ora, l’ipotesi di un centro di studi può essere intrigante, ma appare inverosimile per la perifericità del luogo, per lo stato di difficoltà della ricerca in Italia e soprattutto perché l’edificio non sembra adatto: tre degli ambienti recuperati non comunicano con gli altri e sono accessibili soltanto dall’esterno, e due di questi, le vecchie stalle, hanno un’altezza che non consente a chi abbia una statura appena superiore alla media di stare dritto in piedi. Mancanze che hanno origine proprio nel fatto che evidentemente, al contrario di quanto avveniva in passato, prima si è intervenuti e poi si è pensato a una funzione da attribuire alla nuova struttura».

– Ma in un contesto in cui è difficile pensare a nuovi usi, soprattutto se la destinazione, come è giusto, deve rimanere pubblica, che cosa si dovrebbe fare, attendere passivi i crolli?
«La Comunità montana e il Parco sono intervenuti con determinazione e il loro impegno va lodato, ma forse avrebbero dovuto spendere maggiori energie nel pensare in che cosa si intende trasformare davvero questa contrada. Se le idee non ci sono, ci deve però essere la chiarezza degli intenti. E l’alternativa più valida è quella della preservazione. Per così dire: o si trovano le capacità di innovare, riattivando il rapporto fra la struttura e chi la usa, oppure si decide per l’opzione meno impattante, la conservazione del rudere attraverso misure di consolidamento e risistemazione. È difficile pensare che la contrada Valle possa proporsi come un esempio da seguire per futuri restauri, qui è stato investito un milione e mezzo di Euro di fondi pubblici, cifra impensabile per il bilancio dei comuni locali, stanziata per l’occupazione e lo sviluppo. Ora non resta che sperare che il complesso venga utilizzato e possa veramente generare occupazione, anche se appare difficile. Un intervento conservativo avrebbe comportato una spesa decisamente più contenuta e non avrebbe certo rappresentato una sconfitta: il rudere costituisce lo stadio ultimo della vita di un’opera architettonica, l’unico in cui, esaurita la sua funzionalità, l’edificio permane incontaminato come pura forma d’arte. Preservarlo avrebbe forse potuto essere un più forte incentivo alla ricerca e allo studio della storia dell’architettura di questi luoghi».

Al termine della cerimonia di inaugurazione, si è tenuto in contrada Valle, il concerto degli argentini Juanjo Mosalini e Carlos Adriàn Fioramonti, inserito nella rassegna estiva Voci e luci in Lessinia. Sui pascoli montani, i musicisti hanno presentato pezzi dal loro ultimo album «Tra(d)icional», ovvero «traición a la tradición», “tradimento della tradizione” tanghera attraverso sonorità proprie di altri generi, del jazz e del rock. Sembra un insegnamento rivolto anche alla Lessinia e alle sue contrade: un mantenimento pedissequo corre il pericolo di risultare mortificante; per essere tramandata, per essere rispettata, la tradizione deve essere inevitabilmente anche tradita.

Ludovico Anderloni

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