Dalla tradizione si raccolgono buoni frutti. Vale a dire succosi grappoli di uva saccola, ceste di pere trentosse, spadone, rudene o di San Pietro. Le mele del paradiso e de l’oio, quelle rosse striate e le tenkele, seoloto e decio, biancone e del buro. Manciate di ciliege durone del Chiampo, di rosse, bianche e more di Verona. Nomi curiosi e mai sentiti che, per lo più, fanno addirittura sorridere chi li ascolta. Eppure, soprattutto tra gli anziani, c’è chi ha avuto modo di apprezzare i sapori di queste varietà che arrivano da lontano. Di mezzo, in questo caso, non c’è la globalizzazione dei mercati, ma l’intuizione avuta Remigio Cavallon, titolare di un’azienda agricola a San Gregorio di Veronella, il quale, affiancato dal fratello Giuseppe, ha deciso di far nascere sulle colline di Badia Calavena un Brolo delle biodiversità.
Un frutteto singolare
«Ho sempre avuto la passione per le piante e ho sempre desiderato avere un terreno in montagna nel quale dedicarmi a quelle colture particolari che per varie ragioni sono state cancellate dalla produzione» esordisce Cavallon. L’occasione si è presentata nel 2001, con la messa in vendita a Badia di contrada Giri: sette ettari di collina distribuiti su terrazze ancora da quando le terre erano sotto il dominio dell’antica abbazia benedettina che, con il trascorrere dei decenni, sono stati progressivamente abbandonati e invasi da rovi e cespugli fino a trasformarsi in bosco. Ci sono voluti diversi anni per restituire alla proprietà un nuovo aspetto. E il colpo d’occhio, oggi, è di sicuro effetto.
Il Brolo è frutto della sinergia tra la locale Amministrazione comunale e il parco delle energie rinnovabili Peper Park. E, come spiega Cavallon, dei preziosi consigli di Piergiorgio Dal Grande, tecnico agrario della Provincia di Vicenza che è autore con Gino Bassi del volume Antichi sapori ritrovati: quasi una enciclopedia dei sapori dimenticati. Così, alle tipologie di piante rare ritrovate con il disboscamento del terreno, se ne sono aggiunte via via molte altre che gli agricoltori sono andati a recuperare pazientemente in Lessinia, nella Valle dell’Agno e del Chiampo. «Ci sono voluti quasi otto anni anni per vedere i primi risultati dopo aver dissodato il terreno, preparato le terrazze, collocato le reti a protezione dalla grandine, installato un impianto a goccia per l’irrigazione, creato le piante dagli innesti dopo una ricerca lunga e impegnativa delle varietà».
Un tesoro di 400 piante
Su 2 mila 500 metri di superficie collinare con annesso rustico, il brolo dei fratelli Cavallon racchiude ben cinquantacinque diverse varietà di mele (ciascuna rappresentata da tre piante), venti di pere, dieci di ciliegie e un filare di uva Saccola, un tempo molto diffusa sui Lessini. Nella stagione di raccolta ci sono mele rosse, verdi e gialle dalle forme arrotondate e affusolate, dalla buccia liscia o ruvida. Una fantasia di colori, profumi e sapori che chiunque può andare a visitare se si avventura sulle colline a due chilometri da Badia Calavena fino a raggiungere il Colle San Pietro. Qui, anche chi non ha esattamente il pollice verde, non si troverà smarrito perché ogni pianta reca l’indicazione della varietà presenti con tutte le peculiarità.
Per quanto riguarda il meleto di contrada Giri, dopo tre anni di sopralluoghi all’aria aperta e approfondimenti in aula guidati dagli insegnanti, a occuparsi di catalogare e descrivere in una serie di tabelle le caratteristiche di fiore e frutto delle cinquantacinque varietà presenti nel sito sono stati gli allievi della classe quinta dell’istituto tecnico agrario Stefani-Bentegodi di Caldiero. Un’opportunità di formazione sulla biodiversità, che non ha soltanto valenza storica. «Si tratta di varietà dai sapori inaspettati. Certo, non sono tutte così buone da mangiare, poiché alcune piante venivano impiegate come impollinatrici, porta innesto, a scopo ornamentale o, ancora, per le peculiari doti di resistenza alle avversità climatiche» precisa Nicola Piccolboni, docente che ha coordinato il progetto sui banchi dell’istituto agrario di Caldiero. Il valore aggiunto di queste varietà, prosegue, «è nella capacità di resistere alle malattie, alle avversità ambientali come l’abbassamento delle temperature, ai parassiti. Caratteristiche che possono essere sfruttate per eventuali incroci da cui far nascere nuove varietà da immettere sul mercato». Piante più vigorose, sebbene meno produttive, rispetto a quelle impiegate oggi: «Sono state per lo più create all’estero (Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, Giappone), sono molto produttive, danno frutti di bell’aspetto, ma non sempre soddisfacenti dal punto di vista organolettico e nutrizionale» conclude Piccolboni. Non è un caso, insomma, se alcuni agricoltori iniziano a guardare al passato per portare sulle tavole frutti della tradizione.
Marta Bicego