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Cultura

Le vecchie osterie di Verona secondo Hans Barth

Anche San Zeno, patrono della città, soffermò l’attenzione sull’aspetto botanico della vite veronese che classificò come “lambrusca” erudendoci, nei Sermones, sulle tecniche di vinificazione

In questi anni il vino è stato, e ancora è, argomento prediletto di un numero considerevole di riviste specializzate. A tanta attenzione non fanno eccezione i vini veronesi – Valpolicella, Soave, Bardolino e Custoza in primis – sia per la loro conclamata qualità, sia per le moderne tecniche colturali applicate alla vite. Ineludibile punto di riferimento della produzione e della commercializzazione italiana, grazie al Vinitaly, la vocazione enologica di Verona è tenuta viva da centinaia di spacci opportunamente disseminati dal centro storico fino all’estrema periferia dove i cultori del nettare di Bacco possono trovar conforto alle umane vicissitudini nel rispetto di una spicciola filosofia esistenziale esemplarmente sintetizzata nell’adagio Scarpa larga e goto pien, ciapa la vita come la vien.

In effetti, se il detto può essere preso come modello di uno stile di vita allietato da un calice di buon vino, tale usanza a Verona coincide con un modus vivendi millenario come testimonia il mosaico romano rinvenuto in Piazza Bra raffigurante Bacco intento a spremere un grappolo d’uva sulla testa di una pantera, simbolo di un’umanità ammansita e riconoscente al dio per il dono del vino. E, giusto per porre in evidenza questa “simpatia” dei veronesi per la coltivazione della vite e la fruizione del suo nobile prodotto, ricordiamo che lo stesso Virgilio eleggeva il vino “retico” – così veniva chiamato il vino prodotto sulle nostre colline – tra i primi della Penisola e altrettanto bene ne dicevano Plinio, Strabone, Marziale e Svetonio.

San Zeno, patrono della città, soffermò l’attenzione sull’aspetto botanico della vite veronese che classificò come “lambrusca” erudendoci, nei Sermones, sulle tecniche di vinificazione. Da parte sua Cassiodoro, dignitario alla corte di Teodorico, chiamava “acinatici” i precursori del Reciòto e lodava il sapore regale dei rossi e l’immacolata purezza dei bianchi. A un ipotetico soggiorno di Dante a Soave la tradizione popolare fa risalire i versi: guarda il calor del sol che si fa vino, giunto a l’omor che de la vite cola… (Purg. xxv, 77 – 78), mentre Carducci così salutava Verona: Salve, o Rezia! È bello al bel sole de l’Alpi mescere il nobil tuo vino cantando…

Ancora, si racconta che Hemingway, mentre al Gritti di Venezia era impegnato a ultimare il romanzo Across the river and beyond the trees, confortasse l’ispirazione con generosi sorsi di Valpolicella. In tempi più recenti è noto il caso di un commodoro della Regia Marina Svedese che, assaporato a un pranzo ufficiale del Soave, se ne innamorò a tal punto da preferirlo per tutta la serata agli altri vini. E non finì qui! Fu tale la cotta che l’elisir gli procurò da indurlo a trasferire la dimora a Soave dove, acquistata un’azienda agricola, si dedicò anima e corpo alla coltivazione della vigna.

Tornando al tema che ci siamo proposti di trattare, ovvero delle vecchie osterie cittadine e del rapporto creatosi tra osti, clienti e vino, merita un circostanziato approfondimento quanto scriveva Hans Barth in Osteria. Guida spirituale delle osterie italiane da Verona a Capri. La guida si avvale della traduzione italiana di Giovanni Bistolfi e di una sontuosa prefazione di Gabriele D’Annunzio, garanzia di successo all’itinerario dello scrittore tedesco che inizia a Verona e si conclude, dopo un gaudente pellegrinaggio bibitorio lungo la Penisola, a Capri. Ecco con quali espressioni auliche Barth esalta le affinità elettive di Verona nei confronti del vino: «Che cosa non ha visto la vecchia e veneranda città dell’Adige! Heine la chiama il grande “rifugio dei popoli”; noi specialisti del genere la chiamiamo la “grande osteria dei popoli”; Olimpo, Walhalla, Eden a un tempo; un’osteria potente, coronata di lauro, aureolata di poesia: l’osteria d’Italia!»

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All’appassionata premessa, Barth fa seguire la descrizione dei principali locali cittadini dell’epoca attraverso un percorso che muove dal centro storico per concludersi a San Zeno. La prima sosta è dedicata all’Antica salumeria e osteria Mazzon, sita in Piazza Indipendenza. In compagnia del pittore Angelo Dall’Oca Bianca, ascende al primo piano del vetustissimo palazzo dove, in una grande sala con la volta a croce e vecchi tavoli odorosi di storia, pasteggia con cotechino e brinda con il “buon vinello bianco frizzante” della casa. Al promettente incipit segue una visita alla piccola, ma pulita, Bottiglieria alla Biedermeier dei Fratelli Sterzi, in Via Scudo di Francia 3, a due passi dall’attuale Via Mazzini, perennemente affollata da uomini e donne di classe che vi convengono per degustare Valpantena e Bardolino. Segue un intermezzo alla Birreria Lowenbrau in Piazza Bra’, arredata in perfetto stile bavarese, quindi il nostro esploratore lascia il centro storico per raggiungere Porta San Zeno e prendere commiato dalla città libando ripetutamente all’Osteria alla Luna che non esita a definire «il più devoto santuario di Verona, anzi dell’Italia, del mondo» eretto in onore di Bacco.

Giuseppe Rama

1 Comment

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  1. Beppe braga

    04/03/2014 at 14:40

    Mi piacerebbe conoscere tutte le cose descritte da Giuseppe Rama, in questo articolo. Purtroppo, a seguito di un intervento chirurgico, non posso più gustare quel nettare che gli dei hanno battezzato con il nome di vino! Divini e di vino sono i sapori, e non solo, che offrono i frutti delle nostre vallate: val d’Adige, Valpolicella, Valpantena, Valsquaranto, Val d’Illasi e Val d’Alpone. Credo di averle citate tutte. A queste località vanno aggiunti i vitigni della pianura veronese, dove sono prodotte uve stupende di varie tipologie e qualità, come, ad esempio: garganega, corvina, rondinella, moscata, ed altre più crude come l’uva baco’ e…… la malmaura, quella usata per il Clinto, buono da bere ma non commerciabile. Ricordo, a San Zeno, I Piloti dove si trovava “i Ovi duri” con l’acciuga infrincia’ con lo stuzzicadenti, il Maneghetto dove il codeghin el “ghera” anche in agosto, e L’Osteria del Gigi al Terzo ponte in via Galvani, dove esisteva la vigna più grande di Verona e dove si mangiavano i “fasoi imbogonadi” insieme ai nervetti de porco ed al codeghin fatto bollire per un numero imprecisato di ore, per far perdere il grasso e per poter mangiare anca “el buel”. Chi si avventurava nelle tournée fra le varie osterie, tornava a casa, quasi sempre cantando.

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