Il film esprime un dolore irrisolto, perpetuato e passato di generazione in generazione, nell’angoscia alimentata da odi e rancori tenuti in vita come unica soluzione possibile
Tratto dall’omonimo romanzo di Tracy Letts, divenuto piece teatrale, vincitore del Premio Pulitzer e del Premio Tony nel 2008, I segreti di Osage County, per la regia di John Wells, riflettono il pesante clima del racconto.
Con un linguaggio crudo e acido (come sanno esprimere bene gli americani), la scena si presenta subito soffocante: dentro una stanza semi buia il Sig. Weston affida la moglie Violet Weston a una sorta di domestica tuttofare, una saggia e interessante “nativa americana” che, trattata come serva, si rivelerà invece l’unica persona intelligente e capace di vera dedizione.
Violet Weston si presenta subito con capelli corti arruffati, occhi stralunati e lucidi e la malattia che la divora dentro e fuori. Una donna complessa, ai limiti della cattiveria e dell’arroganza, incapace di superare il dolore dell’infanzia e che riversa senza ritegno tutta la sua sofferenza sulle figlie.
La storia è tutta qui, nel dolore irrisolto, perpetuato e passato di generazione in generazione, nell’angoscia alimentata da odi e rancori tenuti in vita come unica soluzione possibile, con il rischio reale di farsi del male e fare del male agli altri, perché questo è inevitabile.
Con pochissime azioni esterne, il film si snoda all’interno di casa Weston, isolata e solitaria in mezzo una strana pianura dell’Oklahoma, in un luogo tipico di alcuni film americani che rivelano solitudini e distanze improbabili, soprattutto agli occhi di uno spettatore italiano.
Lontananza e dolore alimentano solitudine e tristezza, così la famiglia Weston, radunata per il suicidio del padre alcoolizzato, si ritrova attorno alla matriarca Violet, che vomita il suo disagio sperando nella comprensione delle figlie e del resto della famiglia. Ma le tre figlie riflettono il dolore e il disagio, lo rimandano alla madre e si allontanano, estranee tra loro e “orfane” per scelta. Violet resterà sola, abbandonata e l’unica presenza sarà proprio lòa “serva” nativa americana.
E’ un film non facile questo di Wells, che racconta drammi e archetipi antichi e moderni, da Shakespeare a Cechov a Tennessee Williams a Edward Albee, con una visione tutta americana e un linguaggio sincero e diretto che, scevro da ironia e leggerezza, sfiora la seduta psicoterapica e prende lo spettatore in una sorta di cerimonia claustrofobica (d’altra parte si nota l’appartenenza teatrale del testo: ricordate “Carnage” di Roman Polanskj?)
Ma il film rivela molto di più e scava nel profondo degli animi e nella verità dei rapporti, come quelli primordiali tra genitori e figli, tra madre e figlia, tra uomo e donna.
Un cast da urlo rende questa pellicola imperdibile: Violet Weston è Meryl Streep che ha reso il personaggio così vicino e vero da provare una sorta di compassione e di tenerezza perché, davvero, il dolore è dolore e non sempre si può giudicare. Barbara, la arrabbiata e inacidita figlia maggiore, è Julia Roberts che si rivela ancora una volta e finalmente, al di là dello stile hollywoodiano, senza trucco, intensa e davvero matura.
Anche gli altri attori si distinguono, Ewan Mc Gregor, Chris Cooper, Margo Martindale, Sam Shepard, le altre due sorelle Julianne Nicholson e Juliette Lewis. Ma il rapporto giocato tra la Streep e la Roberts basterebbe da solo a reggere il film.
Nomination agli Oscar 2014 e nomination per la Streep.
Cristiana Albertini