Paolo Ricci entra nella discussione iniziata con le 10 domande alla sinistra poste da Mario Allegri su questo giornale
Non voglio di certo sostituirmi alla Sinistra per rispondere agli incalzanti interrogativi di Mario Allegri, però mi sento di entrare nel dibattito.
E’ certamente vero che la regola di poter votare i candidati alle segreterie contestualmente ad una prima iscrizione al PD costituisce una vera e propria incitazione a far emergere il peggio di un Partito. Sappiamo che anche i santi hanno avuto qualche difficoltà con le tentazioni. Mi risulta comunque difficile pensare che questo sia stato compiuto scientemente per favorire i “rais locali”. Non esageriamo, il PD avrà certamente subito delle degenerazioni correntizie, ma non è (ancora) Cosa Nostra. Credo piuttosto si sia trattato di uno sbandamento sortito per compensazione di quell’eccessiva rigidità che la volta precedente alle primarie non ha consentito di votare al secondo turno chi non avesse partecipato al primo. La mancata istituzionalizzazione delle primarie comporterà sempre confusione, però è anche vero che il PD è stato l’unico a rompere con una consolidata tradizione partitocratica.
Credo anch’io che il PD non colga l’occasione di andare alle elezioni nel momento apparentemente più favorevole perché bloccato dal timore di perderle. In realtà non per codardìa, ma perché segnato da una storia che ha dimostrato come l’Italia non possa polarizzarsi a Sinistra. Non per una sorta di tara genetica, ma per ragioni intrinseche alla sua storia economica. La dicotomia sociale del nostro Paese si pone tradizionalmente tra appartenenza al lavoro dipendente da una parte, incrementato, per condizione sociale assimilabile, dalla crescente categoria dei pensionati, e lavoro autonomo dall’altra.
Oltre il 90% delle aziende del Nord-Italia è composto da meno di 10 dipendenti. E’ questo il noto tessuto produttivo della micro-impresa, cifra del nostro successo che, pur variamente aggiornato e ridimensionato, ha continuato a dare frutti fino all’inizio degli anni ’90, alle soglie della globalizzazione del mercato mondiale.
Fino ad allora in Italia esisteva un patto sociale non scritto: lavoro dipendente poco pagato e valorizzato, ma molto tutelato da un generoso welfare state da una parte e lavoro autonomo formalmente tartassato dall’altra, ma sostanzialmente alleggerito dalla possibilità di una evasione/ elusione fiscale non scoraggiata dal sistema di controllo. Al Nord, sostegno statale incondizionato alle grandi aziende, pensioni alle famiglie degli agricoltori e contributi a fondo perduto loro destinati, cassa integrazione ad oltranza per gli operai, indipendentemente dalle garanzie di ripresa produttiva fornite dalla proprietà. A Sud, ipertrofia della pubblica amministrazione, Cassa del Mezzogiorno e facili pensioni d’invalidità. Il sistema si è mantenuto in equilibrio a prezzo di un debito pubblico in crescita iperbolica e in virtù di una concorrenza favorita dall’inflazione, ma pure, è giusto ribadirlo, dalla creatività del made in Italy, anche tecnologica.
Stare a Destra o a Sinistra dipendeva da un’oggettiva collocazione sociale nel sistema economico. Questa la cosiddetta prima Repubblica della Democrazia Cristiana. Responsabilità del PCI la cogestione di questo sistema che, in nuce, conteneva i germi del proprio default. Non si poteva in questo contesto, così irreggimentato, pensare di spostare gli equilibri politici. Per questo il PCI, anche all’apice del suo successo, ha preferito la strada del “compromesso storico” sempre temendo la radicalizzazione dello scontro, perché, nella situazione data, non avrebbe mai potuto favorirlo, indipendentemente dalla spartizione del mondo da parte delle Superpotenze.
Si è così progressivamente accresciuta una classe dirigente di Sinistra più avvezza alla mediazione ad oltranza con l’avversario, piuttosto che disposta a giocarsi in un alternativa percepita come impraticabile e archiviata dopo la storica sconfitta del 1948.
Una storia ingessata che pesa come un macigno e che ha costituito l’humus su cui è cresciuta Tangentopoli, prefigurata da Enrico Berlinguer nella sua denuncia intorno alla questione morale.
Ma è proprio la crisi economica a sparigliare la staticità della situazione sedimentata da cinquant’anni. Il governo Amato, costretto a metter mano allo stato sociale, rompe per la prima volta l’equilibrio tra i contrapposti interessi in campo. Una decisione che viene percepita come tradimento del patto sociale per chi si trovava dalla parte del lavoro dipendente. In questa crepa, progressivamente allargata, si inserisce il berlusconismo con la sua cultura del mercato, l’aziendalizzazione dello Stato che si vuole ridurre a participio passato del verbo essere, abbattimento generalizzato della pressione fiscale e soprattutto di quell’apparato di regole che, come una rete a maglie strette, sembrava imbrigliare le energie positive del Paese. Purtroppo, però, non è stato difficile addurre prove a favore di questa tesi, perché le evidenze di malgoverno certo non mancavano. Con “questi signori” però, non è più dato trattare, come ha dimostrato l’esperienza fallimentare della “bicamerale per le riforme” di dalemiana memoria.
Ripensare la Sinistra in questo mutato clima economico, sociale e culturale non è stato semplice. L’originario blocco sociale delle Sinistra non era più visibile, specialmente dopo lo sconquasso subìto dal mondo del lavoro in preda ad una de-industrializzazione irreversibile che trascinava con se la certezza “dei diritti acquisiti” sostituita da un’incertezza a tutto campo che toglieva alle nuove generazioni ogni semplice possibilità di progettare il proprio futuro.
In questo scenario epocale, Giorgio Gaber canta “cos’è la Destra cos’è la Sinistra”.
Le rivoluzioni riuscite, insegna la Storia, sono quelle in cui le condizioni oggettive del cambiamento appaiono di fatto già operanti e richiedono solo un loro perfezionamento formale. Da noi francamente non si intravedono, neppure in una prospettiva riformista. E come si potrebbero allora compiere delle scelte nette che muovono nel verso di un’alternativa, quando non si riesce neppure ad immaginare un diverso futuro? Quando non si intravede neppure un nuovo blocco sociale in grado di perseguire un obiettivo di trasformazione democratica, un nuovo progetto di società? E allora si oscilla tra il passato, con “le buone cose di pessimo gusto” (Cuperlo) rinnovate secondo l’ordine della generazione piuttosto che in quella dei contenuti, e un presente che si è imposto su entrambi i poli della dialettica politica in termini di personalismo e spregiudicatezza formale. Non sarà “il migliore dei mondi possibili” (Renzi), ma, indubbiamente più di altri, è in grado di sparigliare le carte e di raccogliere un consenso sufficiente per archiviare il triste Ventennio. Poi si vedrà.
Infine, “il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà” (Civati) a ricordarci che, comunque la si pensi a Sinistra, non si può rimanere sulla riva del fiume a vedere passare i cadaveri, perché, così facendo, il prossimo sarà il nostro. Una chiamata all’impegno, alla responsabilità.
Paolo Ricci
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Dieci domande alla sinistra che i dubbi li vuole chiarire in piazza

Paolo Ricci, nato e residente a Verona, è un medico epidemiologo già direttore dell’Osservatorio Epidemiologico dell’Agenzia di Tutela della Salute delle province di Mantova e Cremona e già professore a contratto presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia in materie di sanità pubblica. Suo interesse particolare lo studio dei rischi ambientali per la salute negli ambienti di vita e di lavoro, con specifico riferimento alle patologie oncologiche, croniche ed agli eventi avversi della riproduzione. E’ autore/coautore di numerose pubblicazioni scientifiche anche su autorevoli riviste internazionali. Attualmente continua a collaborare con l’Istituto Superiore di Sanità per il Progetto pluriennale Sentieri che monitora lo stato di salute dei siti contaminati d’interesse nazionale (SIN) e, in qualità di consulente tecnico, con alcune Procure Generali della Repubblica in tema di amianto e tumori. corinna.paolo@gmail.com
