Il teatro in Lessinia si rinnova e si arricchisce. È questo il risultato cui sono giunti recenti lavori di risistemazione dei teatri di Velo e Roverè Veronese. In una felice coincidenza di tempi, nonostante le incertezze economiche, le sale parrocchiali dei due paesi hanno visto mutare il loro assetto in risposta alle normative sulla sicurezza e alle esigenze sceniche, e si propongono ora come nuovi spazi di condivisione e di cultura.
Il teatro San Niccolò di Roverè, portato a termine in primavera, ha già accolto gli ospiti della serata d’inaugurazione lo scorso 16 giugno, mentre il teatro di Velo da qualche mese è un movimentato cantiere, che dovrebbe concludersi in tempo per l’estate del prossimo anno. Così, dopo il restauro del teatro Vittoria di Bosco Chiesanuova sette anni fa, altre due realtà della montagna si preparano a sfruttare appieno le proprie sale con una veste completamente ammodernata.
Ipotesi, progetti, caparbietà, divergenze, finanziamenti pubblici e contributi privati, passione e volontariato: nella vicenda dei due teatri si manifestano i tratti fisionomici delle opere che coinvolgono piccole comunità nel loro insieme e alla comunità sono rivolte. E proprio il senso della compartecipazione e del coinvolgimento rappresenta la più alta posta in gioco in queste iniziative.
A Roverè si percepisce una strana commistione di incredulità e vivo interesse nel mostrare l’esito delle fatiche: 133 posti a sedere su una platea in pendenza, sormontata da capriate in legno, impianti di riscaldamento e trattamento aria, pannelli fotovoltaici a copertura del consumo elettrico. Se l’edificio, accanto alla chiesa, ha mantenuto pressoché immutato il profilo esterno, i cambiamenti all’interno sono stati notevoli. La sala, originariamente al pianterreno, è stata ricollocata al piano superiore con un’ampia scala d’accesso, naturalmente attrezzata anche per il trasporto di disabili. Una soluzione che può generare difficoltà nell’allestimento degli spettacoli, «ma l’unica possibile», chiarisce l’architetto Antonio Trevisani, progettista dell’opera.
In effetti, l’intero complesso era stato oggetto di un intervento radicale negli anni precedenti, che aveva recuperato il vecchio teatro in disuso per realizzare il centro parrocchiale e le aule del catechismo: «tuttavia, durante i primi lavori», continua l’architetto «non si era mai abbandonata l’idea che il paese di Roverè potesse riavere il proprio teatro, si era soltanto rimandata a tempi futuri, considerando già allora la possibilità di ricavarlo al piano superiore». E così si è fatto.
Motore dell’iniziativa è stato senza dubbio don Giovanni Birtele, parroco a Roverè dal 2001 al 2007 e ora a Fane: «Anche per il teatro è stato lui il “capobanda”», sigla Trevisani «e assieme a lui gran parte del merito va riconosciuta al allora vicario per la Valpantena e la Lessinia don Giovanni Venturini». Fu quest’ultimo, venuto a mancare nel 2011, a seguire il progetto nei due anni in cui, dopo la partenza di don Birtele, la sede parrocchiale è rimasta vacante, e a mediare i rapporti con l’ufficio amministrativo della curia di Verona.
A quel tempo, infatti, non sono mancati attriti e discussioni: «In curia si insisteva per una sala polifunzionale, mentre per i parrocchiani era naturale che si costruisse un vero e proprio teatro», spiega Anselmo Aganetti, del comitato che si occupa ora della gestione della sala, «tanto che, a questo scopo, era già stato stanziato un ingente finanziamento regionale.
Si sono tenute riunioni, alcune piuttosto accese, a una ha partecipato anche l’economo della curia, e alla fine, per fortuna, abbiamo ricevuto i permessi». Con il nulla osta sono giunti anche altri contributi pubblici: dall’amministrazione comunale, che partecipa con un finanziamento di 107.000 euro in quindici anni, dalla fondazione Cariverona e dal Gal Baldo-Lessinia, nonché elargizioni private.
Nell’ottobre 2009, poco dopo l’arrivo dell’attuale parroco, don Giorgio Boninsegna, i lavori hanno preso il via, destinati a transitare attraverso inciampi, variazioni al progetto iniziale, riprese e sforzi congiunti sino alla conclusione.
Ascoltando il resoconto del restauro, nella canonica di Roverè, sembrano riemergere incerti frammenti di una dimensione perduta, la stessa che, in forme diverse, deve aver accompagnato la prima costruzione del teatro negli anni Trenta. Non bisogna lasciarsi confondere, qui come a Velo ci si rende conto che l’intraprendenza individuale non matura in un consenso immediato, e che anzi è necessario attendere i risultati definitivi prima che l’interessamento si faccia davvero collettivo.
Eppure, nell’animosità delle speranze di chi più si è speso, si riconoscono desideri e innocenze che possono essere stati gli stessi quasi un secolo fa, quando don Antonio Quarella, il prete che a Roverè visse entrambe le guerre mondiali, coinvolse tutti per costruire il teatro. Inaugurato nel 1933, quello che allora non era molto più di un palcoscenico in un’aula abbastanza ampia, divenne spunto per la nascita di due compagnie filodrammatiche, e luogo di una fruizione culturale compartecipata ancora priva di alternative. «Tutti venivano a teatro, e nel gruppo di noi giovani, quando si preparavano gli spettacoli, nessuno si tirava indietro!».
Nella sua bottega di falegname, Stefano Trevisani, classe 1928, reagisce sorpreso alle mie domande su chi si desse da fare per le rappresentazioni. Facile comprendere come le condizioni sociali ed economiche fossero diverse da oggi: Stefano lo spiega con parole dirette, dicendo che all’attività teatrale si aderiva con entusiasmo, anche perché costituiva semplicemente un’occasione per stare insieme e divertirsi in un contesto in cui non ci si poteva permettere molto altro.
Qualcosa di nuovo arrivò alla fine degli anni Quaranta, quando si staccarono i primi biglietti del cinema. Con le pellicole distribuite dalla San Paolo ebbe inizio il periodo dell’appuntamento settimanale in un cinema sempre affollato, fino agli anni Sessanta. In seguito, la demonizzata diffusione dei televisori segnò uno scarto con l’epoca precedente: proiezioni e spettacoli continuarono con sempre minor partecipazione per tutti i Settanta e per qualche anno ancora, poi si fece sporadico e via via nullo l’impiego della sala, ormai inagibile a fronte di nuove norme di sicurezza.
Una storia semplice, la stessa che si è ripetuta anche a Velo e che ha segnato la chiusura di tantissimi cinema e teatri parrocchiali in Italia. In apparenza troppo semplice, insufficiente a spiegare. Forse con troppe pretese cerchiamo una ragione più profonda, che possa essere invertita, che al rovescio sia valida anche oggi, e che renda conto della determinazione con cui a Velo e Roverè si ripensa ancora al teatro come mezzo per generare unità e passione in un tessuto sociale più vario e inevitabilmente meno aggregato.
La chiesa della Madonna del Popolo a Villafranca di Verona, cemento armato e geometrie contemporanee in un quartiere nuovo, abitato da famiglie giovani. È strano trovarsi qui per capire che cosa possa essere oggi il teatro in Lessinia, ma qui è parroco don Luigi Sartori, che lo è stato a Velo Veronese dal 1986 al 1995. Il caso di Velo è quello di un restauro continuo, di una serie ininterrotta di interventi, della quale l’ammodernamento complessivo ora in atto marca il compimento. Anche a Velo, sul finire degli anni Ottanta, il teatro era utilizzato soltanto di rado, perlopiù per le recite scolastiche. Poi qualcosa si è innescato, dando origine a un’attività vivacissima, che ha fatto della sala sotto gli archi del patronato il proprio centro, riattivandolo e riadattandolo. Don Luigi allora era arrivato da pochi mesi e ancora non poteva intuire il segno che quegli anni avrebbero lasciato nella vita della comunità. Oggi, lontano dai monti, tradisce ancora un entusiasmo coinvolgente quando gli chiedo di ripensare al clima umano in cui Velo muoveva allora i primi passi per diventare, con i numerosi spettacoli della propria compagnia teatrale, “un paese in scena”.
Inaspettatamente, il suo racconto si spinge molto più lontano della Lessinia e traccia una geografia spirituale che conduce sino al cuore dell’Africa. «Tre miei parrocchiani erano in procinto di partire per la missione di Fonjumetaw in Camerun, fondata dal loro compaesano Padre Celso Corbioli». Sarebbe stato il primo di molti viaggi che condussero laggiù numerosi abitanti di Velo. «Tutta la comunità era coinvolta, sembrava che l’altruismo missionario si estendesse a tutti. Tanto che una sera mi trovai in canonica un gruppo di ragazzini che mi chiedevano cosa potessero fare per dare una mano anche loro. Suggerii di mettere in piedi uno spettacolo per raccogliere delle offerte da inviare: ne nacque un capolavoro di spontaneità e fantasia, capace di smuovere tutti per la freschezza con cui la quotidianità del paese era presa in giro».
Nel racconto di don Luigi sembra di poter leggere una sovrapposizione imprevedibile fra l’espansività africana, che si riproponeva sulla scena, e il sentimento che allora scuoteva la gente di Velo, e di cui il teatro era un volto da accostare a molti altri. L’esperienza missionaria proseguiva e anche la voglia dei ragazzi di mettersi in gioco, che diventava più ambiziosa e non si limitava più soltanto a loro. Il primo grande spettacolo de Le Falìe, la compagnia che da allora ha acquisito notorietà ben oltre i confini di Verona, ha visto partecipe davvero tutta la comunità, che nella rappresentazione narrava il proprio passato e riconosceva se stessa. Nel corso degli anni Novanta, parallelamente agli spettacoli, si organizzava anche il recupero della sala, con il rifacimento degli impianti e le prime modifiche al complesso.
Oggi sono sul tavolo cospicui finanziamenti da parte della fondazione Cariverona e degli enti locali, e un progetto, curato dall’architetto Ezio Albi, che ridisegnerà la fisionomia della sala congiungendo le attuali platea e galleria in unica struttura di 150 posti. Inoltre saranno riorganizzati i camerini, garantita una resa acustica ottimale, e improntati altri miglioramenti che consentiranno al pubblico di assistere alle future rappresentazioni nelle condizioni più idonee. Il ruolo peculiare che il teatro mantiene da più di vent’anni nel quadro del paese spinge a cercare nei lavori edilizi il segno di una conferma più che di una rinascita.
Tuttavia, non è difficile accorgersi che i tempi non sono più quelli dell’entusiasmo iniziale e di un’adesione priva di eccezioni. La parabola de Le Falìe, dopo tanto successo, si è spinta verso una sempre maggiore professionalità, che ha comportato un restringimento del gruppo e parallelamente un venir meno dell’interesse dei compaesani nei confronti dell’attività teatrale.
A confermarlo sono gli stessi membri dell’associazione: ne incontriamo alcuni a pranzo, hanno appena concluso una mattinata di fatica sul cantiere. La tenacia con cui dimostrano di credere nel progetto cede soltanto di fronte alla risposta tiepida della gente. Auspicherebbero un maggiore interessamento, uno sguardo più comprensivo per un’opera che non sarà solo per pochi. «Tantomeno la curia si dimostra collaborativa, sebbene la parrocchia, a lavori conclusi, si ritroverà proprietaria di un edificio completamente rinnovato senza aver speso un centesimo», commentano. Tutt’altro era lo spirito che, nel dopoguerra, richiamò all’opera l’intera comunità, frazioni comprese, per costruire sulla piazza della chiesa il patronato con il grande salone per il teatro.
L’intuizione che la condivisione e la creatività avessero innanzitutto bisogno di luoghi per potersi esprimere fu di don Marcellino Orlandi. Sua fu anche la decisione di rendere conto in un breve opuscolo, pubblicato nel luglio del 1948, delle tante energie investite nell’impresa. L’idea di un corpo civico unanime è presto smentita con pragmaticità: «Tra la popolazione i più intelligenti e buoni aderirono subito; la maggior parte ritenne possibile la realizzazione in dieci anni, una minoranza ostacolò», ma, in appendice, il lungo elenco degli offerenti, suddiviso in base alle contrade, marca indelebilmente la frattura fra la società di miseria di allora e la nostra società di oggi.
Il nuovo teatro non rimase vuoto, furono i ragazzi e le ragazze dei gruppi dell’Azione Cattolica a farsi avanti, a mettere in scena i primi copioni, acquistati alla libreria Gheduzzi di Verona. Fra i villeggianti di quel tempo, trascorreva l’estate a Velo una giovane Luciana Ravazzin, recentemente scomparsa, ai primi movimenti di quella che sarebbe stata la sua lunga carriera teatrale. Fu il suo dinamismo ad accentrare l’intraprendenza e ad allestire spettacoli che riempivano la platea.
In seguito il ruolo di elemento promotore fu ricoperto da altri, e le commedie e le riviste si avvicendarono davanti a un pubblico sempre numeroso. Anche a Velo arrivò il cinema, prima che tutto irrimediabilmente si spegnesse. Sempre vitale sarebbe rimasta tuttavia la funzione educativa del teatro, in una scuola in cui non c’erano ostacoli amministrativi alla finzione scenica.
I bambini preparavano brevi recite in numerose occasioni: per il Natale, la festa degli alberi, la festa della mamma, la fine dell’anno. Ed è questa la traccia che conduce sino agli anni in cui tutto il paese si stringe sul palcoscenico, sino agli anni che don Luigi Sartori ricorda come un periodo di vera unità.
Una traccia che vale la pena di seguire. Ne parliamo con Leonardo Finetto nella sua mansarda di studente. L’università a Verona, la vita a Velo, e già tre anni dedicati al teatro nella scuola elementare. Con lui i bambini hanno realizzato un laboratorio anche durante le vacanze dell’estate scorsa, culminato in un allestimento che, con la ripresa delle lezioni, si è meritato un premio in un concorso regionale.
Attore de Le Falìe sin da ragazzino, non ha dubbi che il teatro rinserri un mondo ancora in grado di appassionare e unire: «Nel recitare con i bambini sorprende soprattutto quanto la loro vivacità sia in grado di propagarsi negli adulti. Anche per le tre commedie messe in scena quest’anno dalla scuola di Velo, la collaborazione di insegnanti e genitori si è rivelata ancora una volta straordinaria. La finzione cui i ragazzi danno vita sembra rigenerare la realtà, aprendo uno spazio in cui ognuno è contento di aggiungere il proprio impegno a quello degli altri».
Gli chiediamo se il nuovo teatro possa dare concretezza a tale spazio: «Proprio sotto quest’aspetto il progetto si fa più ambizioso; l’edilizia risponde a un bisogno di rinnovamento dello stabile, a noi spetta il compito di individuare gli elementi accomunanti, le proposte in grado di suscitare un consenso privo di divisioni. Sono sicuro che i bambini non vedono l’ora di essere attori nel loro nuovo teatro.»
Le parole di Leonardo sono cariche di dedizione. Ne troviamo anche in quelle di Zara Pomari, di Roverè. Nei mesi scorsi i giovani di Roverè si sono resi protagonisti di una felice iniziativa, promossa e cofinanziata dall’amministrazione comunale, che li ha visti alla prova in diversi ambiti artistici. Zara è stata referente del laboratorio di cinema e teatro, al quale si sono affiancati quelli di danza, musica e fotografia. «I gruppi si sono costituiti in base alle richieste di noi ragazzi. Nel mio, in particolare, si pensava a un lavoro sul teatro, ma sin dalle prime riunioni è apparso chiaro che il cinema aveva un mordente più forte, e così ci siamo dedicati alla realizzazione di un cortometraggio, che abbiamo presentato nella serata conclusiva assieme alle altre performance», racconta.
La partecipazione ha superato le aspettative, nei numeri e ancor più nella complicità che via via si è instaurata. Come spiegarsi allora la convivenza fra quello che molti percepiscono come un individualismo diffuso e reazioni così entusiaste? «Anche se ci abiti, è facile restare in disparte rispetto al paese se il lavoro o le amicizie sono altrove», risponde Zara «è successo anche a me. D’improvviso però mi sono ritrovata qui, costretta a riadattarmi alle abitudini di una vita lontana dalla città. Terrore. Possibile che l’unico modo di stare con gli amici qui sia di sedere ai tavolini di un bar? Poi ti accorgi, tuttavia, di una sorta di energia nascosta, pronta a esprimersi improvvisa non appena qualcuno lancia l’idea giusta».
Ha ragione lei, la disaffezione e l’egoismo spesso sono irriflessi, non si generano da sentimenti distruttivi, ma attecchiscono nel torpore o nei dissidi. In Lessinia ci sono due teatri nuovi e tante speranze.
Ludovico Anderloni
ISABEL
18/06/2015 at 14:52
Sono organizzatrice teatrale vorrei avere il numero di telefono del vostro teatro grazie.
Isabella Need Teatro