Piccola Patria di Alessandro Rossetto e Zordan, il mio nipote scemo di Matteo Oleotto: due film molto diversi tra loro, ma entrambi con oggetto la cruda descrizione della realtà sociale del medesimo territorio: il Friuli, anche se alcune scene sono girate nel Veneto, veronese compreso. Il primo attuale e drammatico, il secondo più rivolto al passato prossimo, ad un piccolo borgo rurale, e forse per questo ancora aperto alla speranza.
In Piccola Patria, musica, immagini e storia convergono sinergicamente a sottolineare la disintegrazione di un tessuto comunitario tradizionalmente solido, tenuto insieme da un sedimentato e forte collante cattolico. Le immagini aeree, che a più riprese irrompono nella storia, rappresentano però un paesaggio totalmente devastato dai simulacri di quello sviluppo rampante del “popolo delle partite IVA” che aveva segnato il miracolo economico del Nordest.
Capannoni semi-abbandonati che si frappongono a tangenziali, aziende agricole, abitazioni residenziali e terreni malamente coltivati, aprono la scena. Su questo caos è intervenuta la crisi economica lasciando le proprie macerie post-industriali che sembrano aver sepolto per sempre il mito del “piccolo è bello”. Una geografia che diventa specchio dell’anima dei protagonisti del film. Anche la musica de L’acqua ze morta di Bepi De Marzi incombe a più riprese, facendoci capire che ne è andata della stessa vita di quel territorio di confine raggiunto dalla migrazione di origine slava.
Protagoniste due ragazze, Luisa e Renata. Lavorano come cameriere nel lussuoso quanto anonimo Hotel del luogo. Sono imbevute della cultura dell’effimero, i loro stereotipi di riferimento richiamano la televisione commerciale. Oltre questo il deserto dell’anima che consente loro di vendere con disinvoltura il proprio corpo a clienti e residenti. Uno di questi è l’amico del padre di Luisa, agricoltore fallito e pieno di debiti che non si accorge della deriva della figlia, troppo chiuso com’è nella sua cupa e violenta depressione che scarica in una xenofobia di palese impronta leghista. Neppure la madre, per quanto preoccupata dagli atteggiamenti irriverenti della figlia, riesce a cogliere il problema, coinvolta com’è nel sostenere la famiglia con il suo modesto lavoro. Luisa però incontra Bilal, un ragazzo albanese con cui costruisce una storia pulita. Forse proprio questo “straniero” potrebbe rappresentare un’ancora di salvezza, ma l’ottusità del padre, alimentata dal pregiudizio ideologico che fosse Bilal la rovina di sua figlia, e non l’amico che gli stava accanto, ne genera la furia omicida.
Diverso è l’ambiente del secondo film. Il contesto della tradizione sembra ancora reggere l’urto della cosiddetta modernizzazione e della successiva crisi economica, a differenza di Piccola Patria. In Zordan, il mio nipote scemo i legami comunitari riescono ancora a proteggere i soggetti più fragili. Tutti sembrano poter trovare un posto nel piccolo paese friulano: gli anziani, i poveri, gli alcolisti e anche quelli un po’ iracondi e avvinazzati come il protagonista Paolo, un simpatico omaccione sulla quarantina che non sopporta l’abbandono della moglie risposata con un suo paesano che, forse per qualche recondito complesso di colpa, lo invita spesso a mangiare e bere a casa sua. Equilibri imperfetti che però reggono, ma non si sa fino a quando.
Ad un certo punto compare il deus ex-machina, il giovane nipote Zordan, ereditato da una lontana zia slava di cui non conosceva neppure l’esistenza. Paolo prima vorrebbe liberarsene spedendolo quanto prima ad un collegio della terra donde era venuto, ma poi rimane progressivamente conquistato dalla abissale diversità di Zordan, straordinariamente abile nel gioco delle freccette e che si esprime con un linguaggio aulico appreso imparando l’italiano attraverso la lettura di alcuni romanzi fuori tempo.
Ancora una volta è lo “straniero” ad offrire una possibilità di riscatto ad una vita che sembrava destinata alla solitudine, malamente compensata dall’alcol e dal cibo ingurgitato senza limiti. Paolo è un bestione che non si vuole sottomettere ad alcuna smanceria. Resiste, ma poi è costretto a cedere e si ritrova a giocare insieme a Zordan con un coniglio bianco che gli aveva fatto rievocare la sua adolescenza. E una nuova apertura di vita gli si profila all’orizzonte.
Paolo Ricci

Paolo Ricci, nato e residente a Verona, è un medico epidemiologo già direttore dell’Osservatorio Epidemiologico dell’Agenzia di Tutela della Salute delle province di Mantova e Cremona e già professore a contratto presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia in materie di sanità pubblica. Suo interesse particolare lo studio dei rischi ambientali per la salute negli ambienti di vita e di lavoro, con specifico riferimento alle patologie oncologiche, croniche ed agli eventi avversi della riproduzione. E’ autore/coautore di numerose pubblicazioni scientifiche anche su autorevoli riviste internazionali. Attualmente continua a collaborare con l’Istituto Superiore di Sanità per il Progetto pluriennale Sentieri che monitora lo stato di salute dei siti contaminati d’interesse nazionale (SIN) e, in qualità di consulente tecnico, con alcune Procure Generali della Repubblica in tema di amianto e tumori. corinna.paolo@gmail.com
