Sabato 13 aprile 2013, l’Associazione idem ospita nuovamente al Teatro Nuovo Umberto Galimberti. L’evento è sensazionale, e per la notorietà del filosofo che vanta profonda conoscenza ed arte retorica, e per la coinvolgente tematica annunciata. Ad esaltare la suggestione la maestrìa di Federico Gianello al pianoforte. A confronto nel discorso sono Gesù e Socrate, due nomi, due potenti figure, simboli delle due tradizioni che fondano la nostra storia occidentale: quella greca e quella giudaico-cristiana. Nella sfida tra l’ebreo Gesù e il greco Socrate, a vincere, agli albori della nostra civiltà, è Gesù, la cultura cristiana. In questo senso noi tutti, credenti e non, siamo cristiani perché abbiamo sussunto questa forma di pensiero.
Una sorta di densa lectio magistralis dalle tonalità critiche ed appassionate da parte di uno studioso che, dichiarandosi da subito “uomo greco”, fa procedere la sua interpretazione dal rigore del logos, trova forza argomentativa in un concetto di verità che è insonne ricerca dell’uomo. Dunque, all’origine due mondi, due visioni della vita radicalmente diverse rispetto a: natura, uomo, verità, esistenza. Nel merito, il greco è innamorato dell’uomo, nutre enorme fiducia in lui, conosce ed accetta con lucidità il destino tragico dell’essere mortale sottratto ad ogni trascendenza, coltiva una verità che abita e si dis-vela nell’uomo, affermandosi di volta in volta attraverso il pòlemos, la dialettica dei ragionamenti. Il suo senso esistenziale è garantito dalla polis, intesa come comunità degli uomini che “per natura” sono animali politici e quindi soltanto in essa trovano la loro realizzazione. Le leggi costituiscono quindi quel cemento della società senza il quale cadrebbe in rovina. Per il valore della legge in quanto tale, Socrate non esita ad andare a morte. Vivere “secondo misura” è criterio fondativo dell’etica greca. Equivale a conoscere ed esprimere le capacità individuali nella consapevolezza e nel rispetto del proprio limite. E’ questa la virtù che consente il raggiungimento dell’eudaimonìa, cioè la felicità. Una felicità che è soltanto di questa vita perché l’uomo greco appartiene ad una Natura eterna e originaria in cui ogni cosa nel ciclo del divenire si risolve. Per tutto questo Socrate guarda in faccia e affronta senza drammaticità la morte. Quando arriva il dolore, sembra dire il filosofo, reggilo, perché fa parte della vita. E’ ineludibile, è il suo lato tragico. All’opposto la posizione del cristiano. Qui al centro non è più l’uomo, ma Dio che l’ha creato. In Lui è riposta ogni verità. Non a caso Paolo di Tarso afferma che gli uomini sono “vasi da riempire”. La verità dunque non si cerca, ma si apprende e si predica. L’uomo non è degno di fiducia perché gravato dalla colpa che si è fatta peccato. Può essere soltanto oggetto di redenzione. Con il mondo giudaico-cristiano si inaugura uno scenario ultraterreno in cui si realizza l’unica possibilità di salvezza. In questa prospettiva la vita rimane soltanto “valle di lacrime”. Un dolore però glorificato perché riscatta dal peccato ed è funzionale al premio di una felicità eterna. La celebrazione del dolore, stigma della vita, si fa rappresentazione iconografica fino a sublimarsi attraverso l’estetica nelle forme eccelse dell’arte che raccontano la storia dell’Occidente. Cifra originale del cristianesimo è l’introduzione della categoria dell’amore nel significato di àgape, cioè amore del prossimo come se stessi, privo però di ogni connotazione sessuale (éros) o amicale (filìa). E’ questo il nuovo cemento della comunità cristiana (ecclésia) che si sostituisce alle leggi degli uomini derubricate come valore fondativo. Nonostante il cristiano creda nell’immortalità dell’anima e nella resurrezione dei corpi ha però paura della morte. “Padre mio perché mi hai abbandonato?” grida Gesù dalla croce. La morte, che compare solo a seguito del peccato originale, è male perché nemica di Dio, perdita del proprio fondamento creativo, caduta nel nulla. Quindi non può che essere disperazione. Si tratta comunque di una situazione transitoria per quanto drammatica. Per il Cristianesimo infatti se il passato è peccato, il presente è redenzione, il futuro è salvezza. Vige in definitiva una concezione ottimistica dell’esistenza. E’ anche sotto questo profilo che ”non possiamo non dirci cristiani”. Riflettendo, osserva Galimberti, questo rapporto con le figure del tempo è condiviso sia da Marx, in cui il passato è ingiustizia, il presente rivoluzione e il futuro liberazione, sia da Freud dove la scansione temporale è data dal trauma, dall’analisi e dalla guarigione, sia dalla tecno-scienza in cui l’ignoranza del passato è vinta dalla ricerca e superata sempre con il progresso.
A mio avviso, Socrate e Gesù, paradigmi della storia dell’Occidente, si appalesano entrambi perdenti. Se prima infatti ha perso Socrate, ora anche Gesù cade sotto i colpi di un nichilismo imperante annunciato all’inizio del Novecento con “la morte di Dio” da parte di Nietzsche.
In questo virtuale campo di battaglia, impellente sorge allora la domanda del che fare. E’ ancora una volta il mito a soccorrerci. Come per la statua di Glauco ripescata dal mare si è proceduto ad una progressiva disincrostazione dei sedimenti, così noi forse dobbiamo operare nei confronti della nostra storia. Tenere dunque dell’uomo greco l’approccio dialettico di ricerca alla verità, il rispetto del limite come valore della finitezza umana, la responsabilità verso la Natura come divino sfondo originario ed immanente che ci ospita. Un recupero fecondato però dal contributo innovativo di una tradizione cristiana che con il concetto di persona ha valorizzato ogni vita individuale pur nella pluralità e ricchezza della relazione con gli altri di più antica tradizione. In questo incontro ha peraltro preso forma la moderna concezione solidaristica di democrazia che lascia a ciascuno la libertà delle proprie convinzioni, laiche o religiose.
Corinna Albolino

Originaria di Mantova, vive e lavora a Verona. Laureata in Filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, si è poi specializzata in scrittura autobiografica con un corso triennale presso la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari (Arezzo). In continuità con questa formazione conduce da tempo laboratori di scrittura di sé, gruppi di lettura e conversazioni filosofiche nella città. Dal 2009 collabora con il giornale Verona In. corinna.paolo@tin.it

Corinna Albolino
02/05/2013 at 02:24
Grazie dell’apprezzamento.
Rimango però dell’opinione che “uomo greco” e “uomo cristiano” siano profondamente diversi. Radicalmente differente è il loro modo di abitare la terra, la scala di valori etici che regola il loro agire.
Prioritario per il cristiano è definirsi nell’aldiqua come persona, singolarità unica ed irripetibile alla quale è data eternità nell’aldilà. Felicità o dannazione, ma per sempre. Questo non vale invece per il greco, “il mortale” per antonomasia, che lucidamente accetta di essere finitezza e ripone il suo senso di vita unicamente nella realizzazione terrena dell’armonia della polis, quella polis che rappresenta il Tutto, di cui si sente parte. Dati questi presupposti fondamentali, ne consegue un’etica diversa, un diverso valore attribuito alla comunità, alle sue regole. Per non trasgredire la legge di Atene, Socrate non esita ad andare a morte, il cristiano invece, quando si fa martire, lo fa soltanto nel nome di Dio. Per entrambi è certamente importante il bene della comunità, ma per il cristiano essa rimane comunque subordinata alla sua individuale salvezza. Il giudizio universale è ad personam.
Anche in termini di “ricaduta pragmatica” le reciproche azioni spesso confliggono. Eutanasia, interruzione volontaria di gravidanza, matrimonio tra coppie dello stesso sesso, centralità della famiglia nella vita pubblica, sono soltanto alcuni esempi in cui il cristiano proclama il diritto di agire “secondo coscienza” o invoca il cosiddetto “diritto naturale” per poter derogare alle norme dello Stato o per piegarle alla propria visione del mondo. Per l’uomo greco questo doppio binario sarebbe stato impensabile.
Omologare le due culture, e nella fattispecie cristianizzare la civiltà greca, significa, io penso, svilire la ricchezza delle differenze.
sergio Mantovani
23/04/2013 at 18:59
Ringrazio Corinna Alboino per la preziosa sintesi. Nell’ultima parte della quale non riesco tuttavia a capire bene. ho capito bene la differenza tra Socrate e Gesù; tra la cultura greca e quella cristiana e le loro divergenti impronte nella storia. Sono tuttavia convinto che si possa conciliare le due culture non sotto il profilo dottrinale, ma su quello prgamatico. Il cittadino greco che si armonizza volontariamente con le leggi della polis e le accetta fino all’accettazione della morte se queste la impongono, mi pare possa bene coesistere col cristiano in nome del prioritario amore fraterno, che deriva dall’essere tutti figli di un solo Padre. Insomma il cittadino democratico greco che antepone le legge della polis alla sua individualità è molto vicino al cristiano che è tale soltanto se ama il suo fratello (prossimo) come se stesso in nome dell’unico Padre. Il vero cristiano non prega il Padre mio, ma il Padre nostro. Il Cristiano che dice di amare Dio che non vede e non ama l’uomo che vede è un bugiardo.. Cristo ha insegnato che l’amore verso Dio e verso il prossimo sono inscindibili e sono l’essenza del Vangelo Ecco perchè, pur prendendo atto che il greco non crede nell’immortalità del cristiano, trovo praticamente affratellati nella prassi quotidiana il cittadino democratico di cultura socratica e il cittadino democratico di fede cristiana.