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Cultura

Con Carlo Zinelli l’arte ritrova nella follia la sua fonte primordiale

Carlo Zinelli divenne certamente un grande artista ma forse, senza la sua malattia, non avrebbe mai pensato di cominciare a dipingere e di trovare nella pittura il modo per essere “libero” di esprimersi, tanto che nel suo caso si può dire che “la terapia dell’arte ha vinto sulla terapia della medicina”

Alice Castellani. Fu grazie all’Atelier di pittura creato dallo scultore scozzese Michael Noble e dal professor Mario Marini all’interno dell’Ospedale psichiatrico di San Giacomo alla Tomba di Verona che Carlo Zinelli scoprì il suo talento. Entrato definitivamente in ospedale con una diagnosi di schizofrenia paranoide nell’aprile del 1947, dopo anni di frequenti ricoveri legati ai suoi scoppi di aggressività e crisi di panico – curati con elettroshock e trattamenti di insulina –, Carlo Zinelli divenne uno tra i più interessanti rappresentanti dell’Art Brut, apprezzato a livello internazionale.

Nato a San Giovanni Lupatoto, in provincia di Verona, il 2 luglio 1916 da una famiglia di carpentieri, era il sesto di sette figli e rimase orfano di madre a soli tre anni. La sua infanzia non fu certo facile, tanto che frequentò per tre volte la prima elementare, perché sistematicamente tra marzo e aprile veniva ritirato dalla scuola per essere impiegato nei lavori dei campi. A nove anni lasciò definitivamente la scuola, e fu ospitato presso una famiglia contadina di Palazzina a cui iniziò a sorvegliare il bestiame, trascorrendo gran parte dell’infanzia con loro come “fameio”. Nel 1934 si trasferì a Verona andando a lavorare presso il Macello Comunale. Terminato il servizio militare si arruolò nel Battaglione Trento dell’11° Reggimento del corpo degli Alpini e nel 1939 si imbarcò a Napoli come “volontario” nella guerra di Spagna.

L’esperienza della guerra, per quanto breve, lo segnerà per tutta la vita. Rimpatriato dopo soli due mesi con gravi turbe psichiche, Zinelli venne presto riformato e cominciò il suo calvario dentro e fuori dall’ospedale, fino al ricovero definitivo che lo allontanò sempre più dal mondo. La svolta arrivò dopo dieci anni trascorsi come uno qualunque dei malati, nel 1957, con l’avvio della prima esperienza italiana di Art Therapy – che la letteratura scientifica giudica capace di indurre miglioramenti nella realizzazione interpersonale, nelle capacità sociali, e, per certi versi, anche nello stato mentale – voluta da Noble e Marini, grazie alla quale Zinelli trovò il mezzo per esprimere la sua personalità. Carlo Zinelli divenne certamente un grande artista ma forse, senza la sua malattia, non avrebbe mai pensato di cominciare a dipingere e di trovare nella pittura il modo per essere “libero” di esprimersi, tanto che nel suo caso si può dire che “la terapia dell’arte ha vinto sulla terapia della medicina”.

Oggi lo si annovera tra i pittori di fama internazionale, una delle figure di spicco nel panorama artistico del ‘900 le cui opere si trovano nei musei di tutto il mondo. Già prima dell’inizio dei seminari di Art Therapy, all’interno dell’ospedale alcuni infermieri avevano notato la sua spontanea tendenza a disegnare su muri e sassi. Tra i venti pazienti che parteciparono attivamente all’esperienza artistica dell’atelier, il talento di Carlo fu quello che emerse con maggiore evidenza e Michel Noble, lo scultore ideatore dell’iniziativa, ottenne per lui e gli altri dell’atelier anche il permesso di uscire temporaneamente dalla struttura ospedaliera. La produzione dell’atelier suscitò ben presto un generale interesse, tanto che fu lo scrittore Dino Buzzati a presentare la prima mostra collettiva presso la Galleria “La cornice” di Verona, nel 1957, cui ne seguirono molte altre, con il duplice scopo di finanziare l’attività dell’atelier e di far conoscere questi lavori fuori città e all’estero.

Nel 1963 Carlo Zinelli fu l’unico italiano ad esporre le sue opere nella mostra dal titolo Insania Pingens, organizzata alla Kunstallen di Berna. Agli inizi degli anni ’60 grazie all’interessamento dello psichiatra Vittorino Andreoli, che era giunto ancora studente all’ospedale psichiatrico di Verona, i suoi lavori erano stati presentati alle avanguardie che ricercavano “l’arte vera”, non mediata dall’appartenenza alla cultura ufficiale. Andreoli si era infatti rivolto all’artista Jean Dubuffet – che aveva creato con Breton ed altri esponenti surrealisti e dada la Compagnie de l’Art Brut – perché visionasse l’opera di Carlo ed esprimesse un giudizio.

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Già dai primi decenni del Novecento, con lo sviluppo delle teorie psicoanalitiche e delle avanguardie artistico-letterarie legate ai temi dell’inconscio, del sogno, del superamento dell’oggettivismo e del naturalismo, era avvenuto l’incontro fra l’arte accademica e quella dei manicomi, con l’arte dei folli che in certi casi diventava addirittura un parametro per giudicare l’arte moderna. Questo gruppo di geniali intellettuali teorizzavano la necessità per l’arte di tornare alle origini, riconoscendo nell’arte dei primitivi, dei bambini e dei folli l’esempio a cui ispirarsi. Ma inizialmente Dubuffet non era convinto dell’effettiva “libertà” culturale del lavoro di Zinelli, comunque caratterizzato da armonia di forme e colori. Solo conoscendo meglio la sua storia di vita si convinse della spontanea genialità “non culturale” del pittore veronese. Nel 1966 Andreoli scrisse la prima monografia dedicata a Carlo nei Cahiers de l’Art Brut ma nel 1969, con lo spostamento nel nuovo manicomio di Marzana, l’ispirazione e l’incisività di Zinelli subirono un calo, anche se proseguì la sua investigazione grafica e pittorica tramite l’uso di forme di testo e nuove tecniche.

L’esaurirsi della vena creativa negli ultimi anni di vita si lega all’istituzionalizzazione dell’atelier avvenuta nella nuova sede e alla perdita delle precedenti relazioni, con una conseguente inibizione delle facoltà immaginative ed espositive di quella che era stata una forma d’arte totale, capace di coinvolgere segno, colore, parola e suono a creare un linguaggio vero e proprio, per Sergio Marinelli costituito da “una civiltà figurativa individuale”.

Zinelli morì nel gennaio del 1974 per una semplice broncopolmonite. La sua opera è costellata dal numero 4, dal valore sacro-simbolico difficilmente interpretabile ma che certamente assume una valenza ritmica, quasi un elemento ordinatore di tutto il sistema linguistico usato dall’artista.

Nella prima fase della sua produzione troviamo allo stato minimo tutti gli elementi che verranno in seguito investigati e combinati, a formare gli elementi del suo vocabolario espressivo. In una seconda fase Zinelli acquisisce una maggiore destrezza di segno e una capacità straordinaria di usare il colore, sia sullo sfondo che nelle figure. In un terzo periodo compare la presenza decisa della scrittura quale elemento grafico-decorativo mentre nell’ultimo si registra un passaggio dal bianco e nero al grafico descrittivo e a nuove sperimentazioni pittoriche.

I suoi quadri raccontano per associazioni tematiche e con un linguaggio reinventato, criptico e affascinante, la sua vita e i suoi misteri, con una vena poetica che deriva dal suo mettere tutto se stesso nella narrazione di sé. Zinelli ci parla della sua vita con un originale e unico sistema semantico, che pur trae i suoi elementi dal vocabolario universale comune – cioè da quel caos primigenio che ha in sé il potenziale sviluppo di ogni successivo linguaggio – vista la mancanza di condizionamento culturale e la pulsione creativa allo stato originario della sua pittura. Così per capire la sua arte si deve prima di tutto affondare dentro se stessi, abbandonarsi alla primigenia capacità percettiva, alla memoria arcaica, alla tensione verso la conoscenza. E l’unica cosa da fare è guardare, come disse una volta Zinelli a un giornalista, che lo incalzava perché gli spiegasse il significato di un suo quadro esposto ad una mostra a Milano: «se non te si cretino, guarda!». Vi invitiamo allora a visitare la Fondazione Culturale Carlo Zinelli a San Giovanni Lupatoto (nel Palazzo Municipale in via Roma 18) per vedere da vicino le sue opere, caratterizzate sì dalle tipiche espressioni della produzione schizofrenica (l’horror vacui, la stereotipia, la tendenza all’ordine, alla reiterazione), ma pure da canoni puramente pittorici come la serialità, il rigore e l’armonia compositiva e cromatica.

Alice Castellani

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