Una rappresentazione meritevole di attenzione è stata, già ad ottobre, Poema a fumetti al foyer del Teatro Nuovo. Un’opera del tutto singolare di Dino Buzzati, a quarant’anni dalla sua scomparsa
Corinna Albolino. Autunno, tempo di ripresa in città delle attività culturali. Teatri, cinema, accademie, circoli culturali, riaprono le loro porte contendendosi gli spazi destinati al tempo libero. Investiti da tanto fermento, talora risulta difficile muoversi tra i numerosi appuntamenti che spesso si sovrappongono nelle date. La scelta necessita quindi di un occhio attento, educato alla qualità, all’estetica del prodotto. Solo così si è in grado di individuare ciò che è bene non perdere.
Una rappresentazione meritevole di attenzione è stata, già ad ottobre, Poema a fumetti al foyer del Teatro Nuovo. Un’opera del tutto singolare di Dino Buzzati, a quarant’anni dalla sua scomparsa. Una videoproiezione delle immagini originali, affidata per la narrazione alla toccante voce recitante di Paolo Valerio, accompagnato dal vibrante pianoforte del maestro Antonio Di Pofi. Arricchita alla fine da un interessante commento di Maria Teresa Ferrari, studiosa di Buzzati. Uno spettacolo davvero coinvolgente, rivolto ad un pubblico attento, emozionato, in un contesto del tutto insolito: il foyer, il magico dietro le quinte del palcoscenico, un luogo che raramente si ha la possibilità di frequentare.
Sicuramente una composizione dello scrittore di un genere inaspettato, ignoto ancora a molti degli spettatori, quelli che conoscono il Buzzati scrittore, autore noto per Il deserto dei tartari, menzionato in tutte le antologie, riprodotto poi in un film. E’ stata dunque l’occasione per ricordare o scoprire un grande narratore contemporaneo, autore di molti romanzi, raccolte di racconti, di testi per il teatro, ma anche giornalista, pittore e …fumettista.
Dunque uno spirito eclettico capace anche di incantare con la potenza di un universo fantastico, surreale, un mondo segreto che l’autore coltivava perché rispondeva alle “cose che piacciono senza riserve, cose che vengono su dai visceri”. Pagine affollate da figure femminili nude, prorompenti nella loro carnalità, corredate da una narrazione colta, carica di riferimenti a letterati, artisti di ogni tempo. La memoria corre veloce alle donne sensuali di Federico Fellini e per i veronesi a quelle provocanti di Milo Manara. Tavole erotiche coloratissime che il narratore, quasi vergognandosi di tale esplosiva e disinibita creatività, aveva illustrato, ma poi tenuto per sé perché giudicate inadatte al periodo storico. Era infatti un’epoca ancora impreparata ad accogliere la sorprendente novità di una tecnica modernissima che, con grande anticipazione dei tempi, sperimentava la felice contaminazione di linguaggi diversi quali quello poetico, artistico-figurativo, fiabesco. Le aveva così affidate alla moglie perché le pubblicasse postume. Si deve ad Almerina, la consorte, l’idea geniale di averle invece un giorno rispolverate e consegnate all’editore.
Era l’anno 1969 e il poema a fumetti veniva pubblicato proprio a Verona, nella Casa Editrice Mondadori della nostra città, proprio per la volontà di Arnoldo. L’anno successivo si accreditava da Paese sera il premio di migliore fumetto dell’anno. Come spesso accade è il mito, con le sue narrazioni fantastiche del mondo, ad ispirare il poema. In particolare il mito di Orfeo e Euridice, una storia delle origini che consente di trattare in altre forme e linguaggi quelli che furono i temi ricorrenti della narrativa di Buzzati: il rapporto con la morte, l’ineluttabilità del destino, l’interrogazione sull’aldilà, l’insonne ricerca di un trascendente. Così, in una reinterpretazione moderna e fantastica, Orfeo – il cantore e musico e poeta per eccellenza dell’antichità che con la sua cetra sapeva incantare uomini e natura – diviene qui Orfi, il ragazzo che con la chitarra scende agli Inferi, questa volta alla ricerca di Eura la sua amata.
L’avventuroso viaggio infernale del protagonista, caricandosi in modo incalzante di tonalità spesso inquietanti, rende in maniera efficace il terrore che l’uomo prova di fronte al mistero della morte, lo smarrimento che insorge alla visione di un aldilà abitato da una moltitudine di anime che vagano in un perpetuo movimento. Là dove il tempo si pietrifica, tutto naufraga nell’eternamente uguale, identico a se stesso. E Dio, c’è un Dio? Chiamata dal desiderio impellente un volto ieratico irrompe sulla scena, ma la risposta rimane inevasa. Inconsolabile si appalesa nella figura di Eura la nostalgia della vita, di quella vita terrena scandita dallo scorrere del tempo, dalle progettualità, da un senso. Che ore sono? chiede Eura ad Orfi, il ragazzo che con la magia della sua arte canora tenta strenuamente di strappare l’amata a quel regno, “lasciami l’orologio!” L’orologio, simbolo della nostra finitezza, del nostro essere per la morte, in vista di essa, come afferma Heidegger. Quel limite estremo rispetto al quale però prende senso ogni nostro agire.

Originaria di Mantova, vive e lavora a Verona. Laureata in Filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, si è poi specializzata in scrittura autobiografica con un corso triennale presso la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari (Arezzo). In continuità con questa formazione conduce da tempo laboratori di scrittura di sé, gruppi di lettura e conversazioni filosofiche nella città. Dal 2009 collabora con il giornale Verona In. corinna.paolo@tin.it
