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Un tizzone fascista cova ancora sotto la cenere

Sono passati dieci anni dalla tragica notte tra il 30 aprile e l’1 maggio, quando Nicola Tommasoli fu aggredito davanti a Porta Leoni, in pieno centro a Verona. Quel brutale pestaggio provocò a Nicola il coma che l’avrebbe, nel giro di pochi giorni, strappato alla sua giovane vita. Per non dimenticare quanto è successo, il nostro giornale ripropone ai lettori gli articoli dello Speciale Violenza a Verona (N° 21 di Verona In) pubblicati nell’aprile 2009, primo anniversario della morte di Nicola. Sono una ventina di articoli scritti da altrettanti giornalisti di diverse testate che hanno cercato di dare, per quanto possibile, una  interpretazione di quanto era successo un anno prima. Conoscere, capire, sapere serve infatti ad evitare che episodi così drammatici si ripetano. La morte di Nicola non fu infatti una fatalità, ma la diretta conseguenza di un clima di intolleranza che a Verona ancora si respira. (C.I.) 

di Giuseppe Brugnoli

“Dall’analisi del perché della violenza alle prospettive per una Verona a misura d’uomo”… “provare a individuare le cause della violenza con esempi concreti, tracciando delle coraggiose ipotesi di soluzione ai problemi per fare di Verona una città a misura d’uomo”… “essere concreti e costruttivi, tanto nelle analisi quanto nelle prospettive”. Ecco la traccia di un “tema in classe”, da svolgere nello spazio di 4-5 mila battute, spazi inclusi. Una bella sfida, non c’è che dire.
L’analisi quindi deve necessariamente prescindere dai discorsi generali, che sono così belli perché onnicomprensivi, per affrontare la domanda: in un mondo come il nostro dove la violenza è dappertutto, e gli esempi ci vengono sottoposti ogni giorno, esiste una violenza “veronese” con caratteristiche proprie, con una specifica individualità antropologica? Se le cause della violenza sono le stesse a Verona come in qualsiasi altro luogo del mondo, allora le “coraggiose ipotesi di soluzione ai problemi” possono essere formulate “per fare di Verona una città a misura d’uomo” come per fare di Mumbai o di Baghdad una città a misura d’uomo. Ma il problema proposto parte dall’assunto che a Verona ci siano cause specifiche di una violenza con caratteristiche particolari, e la prima incognita da risolvere sia l’individuazione di queste cause che non hanno corrispondenza in altre parti d’Italia e del mondo. Se quindi “l’analisi del perché della violenza” porta alla constatazione che la situazione, il clima, ma anche gli episodi stessi di violenza non caratterizzano in modo speciale Verona rispetto ad altri luoghi con cui la città possa essere correttamente paragonata, allora viene a mancare anche ogni “coraggiosa ipotesi di soluzione” che sia indicata per Verona.
La premessa vale per sostenere che invece, se si chiede come analisi di studio e di proposta Verona, si ritiene che la città meriti e forse abbia bisogno di un approfondimento critico. E quindi, per poter procedere, conviene identificare una specificità, che qualifica la violenza a Verona come diversa, in tutto o in parte dalla violenza panica che sommerge il mondo intero.
Provo a buttare un’ipotesi, che non è un “esempio concreto” e neppure una “ipotesi di soluzione” ma solo un’ipotesi di causa. Essa parte dalla constatazione che Verona, città che prima del ventennio fascista è stata laica e socialista, dopo la liberazione divenne francamente democristiana. Non per una improvvisa conversione, ma soltanto perché il partito moderato raccolse i voti di tutti quei fascisti che furono portati a Verona dalla Repubblica sociale, che qui aveva i suoi ministeri e quindi i suoi impiegati. Rimasti a Verona dopo la guerra, spesso disoccupati o sottoccupati, questi ex fascisti non militarono se non in minima parte nelle nuove formazioni politiche che rivendicavano una continuità con lo scomparso regime, ma allevarono nei loro figli generazioni di “nostalgici” che, per esprimere la loro insofferenza verso i nuovi padroni del vapore si orientarono verso una milizia di carattere sportivo, di preferenza come tifosi di calcio, in cui potevano esprimere la loro voglia revanchista anche in esercitazioni di guerriglia urbana o in attentati, o presunti tali, dimostrativi.
Verona, città appartata e lontana dal circuito dei grandi centri di attrazione politica o dalle scuole di elaborazione ideologica come le università, forniva un terreno di coltura adatto a far crescere rivendicazioni e a favorire aggregazioni amicali che trovavano una giustificazione culturale in saghe pseudoesoteriche che impostavano il pathos del loro racconto sul mito del conflitto di civiltà e della necessità di mantenere una irrazionale e anacronistica purezza originaria nel popolo. E poichè, come diceva Goja, “el sueno de la razon produce monstruos” ecco che questo irrazionalismo eretto a sistema di vita e a comandamento di carattere istituzionale-religioso porta a fenomeni come quelli attribuiti trent’anni fa ad Abel e Furlan ed ora ai giovani incolpati delle aggressioni di Porta Leona e di Piazza Viviani. Ipotesi di soluzione? Tornare a pensare che la diversità è ricchezza, non soltanto culturale, e che un mondo in cui “uomini dai capelli lunghi si accompagnano a donne dai capelli corti”, come i razzisti del profondo sud statunitensi definivano scandalizzati durante la guerra civile gli yankee venuti dal nord, è non solo possibile ma anche “normale” è uno dei dati più elementari per una civile convivenza.

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