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Teatro Romano. Romeo e Giulietta adolescenti trentenni

di Paola Quattrucci

L’amore contrastato, perseguitato, giocato, deriso, sofferente e gioioso, distruttivo e catartico è il principale motore dei drammi di Shakespeare. Dietro a questo eros multiforme c’è un’idea drammaturgica geniale che da cinquecento anni aleggia, con il suo fascino misterioso, nella mente degli artisti. Una formula da carpire e re-inventare più che da decifrare.
Il 57° Festival Shakesperiano si apre all’insegna dell’innovazione all’interno dell’Estate teatrale veronese, con due originali edizioni di Romeo e Giulietta, in cinque appuntamenti a partire dal 30 giugno, e la Bibetica domata, proposta in altrettante serate, dal 13 al 17 luglio.
La storia dei due amanti veronesi appartenenti a famiglie da sempre rivali, i Montecchi e i Capuleti, è una rielaborazione shakespeariana di un ben noto racconto popolare. Ma la poesia di alcuni versi del drammaturgo anglosassone è entrata nell’immaginario collettivo. Celebre è il passaggio in cui, nel buio, Romeo resta abbagliato dalla visione di Giulietta, che già sospira all’aria il nome del suo amato, e non esita a definirla “luce che apre l’ombra da quel balcone”. E più avanti nel dramma quando i due innamorati, stretti dopo la loro prima notte di nozze, sanno che è giunto il tempo di separarsi ma, sentendo il verso dell’uccello del mattino, si confortano nell’illusione che “non era l’allodola ma l’usignolo”. La storia prosegue con la partenza di Romeo, che si allontana per un breve periodo affinché Giuletta si finga morta grazie a una pozione che le fermerà il cuore per poco tempo. Uno stratagemma che permetterà loro di darsi appuntamento nella cappella di sepoltura dei Capuleti prima di fuggire da Verona e dalle ostilità delle loro famiglie. Invece “il crudele destino” fa sì che le cose non vadano secondo i piani ed entrambi i giovani muoiono vittime del loro contrastato amore.
E proprio l’effetto narrativo era stato quello perseguito da Gabriele Vacis, che firma la regia di questo nuovo lavoro, nella sua precedente edizione del 1991. Allora, il regista, considerato l’iniziatore del teatro di narrazione in Italia, aveva ideato una messinscena tutta basata sulla parola: un Shakespeare letto e non agito fisicamente, dove le voci degli attori, filtrate dalla sonorizzazione elettronica, rendevano le situazioni spaziali e le atmosfere del dramma. Vacis aveva inoltre estrapolato dal testo shakespeariano le parti discorsive più famose e le aveva ricucite intorno al nucleo narrativo del poemetto del poeta veronese Betteloni, raccontato dai toni affabulatori di Marco Paolini.
In questa nuova edizione saranno gli attori Jurij Ferrini e Sarah Biacchi a vestire gli insoliti panni di un Romeo e Giulietta trentenni, figli dei nostri tempi, con le stesse problematiche che vivevano cinquecento anni fa i giovani dell’immortale storia. Ma qual è il motivo di tale scelta? «Probabilmente perché oggi è a trentacinque anni che finisce l’adolescenza» ironizza il regista proponendo una lettura drammaturgica che riflette un particolare approccio ai classici che oramai fa scuola. Questa Giulietta e Romeo punta a una qualità di presenza scenica che riflette la chiave di lettura dell’opera. «Mi piacciono gli attori che lavorano per denudamento, che cercano delle verità interne» afferma Vacis. Un’interpretazione, insomma, che va oltre la costruzione di una verità esterna, che non penetra nell’immaginario dello spettatore, grazie al fondamentale lavoro dell’attore, spesso complementare alle scelte registiche.

La bisbetica domata

L’altro spettacolo shakespeariano che andrà in scena al Teatro Romano, La bisbetica domata, é firmato dalla regia di Matteo Tarasco, con l’attore comico Tullio Solenghi nei panni del protagonista maschile Ferruccio.
Introduce la commedia un prologo dove l’ubriacone Sly si addormenta per una sbronza e un signore decide, con l’aiuto di alcuni commedianti, di fargli uno scherzo, facendolo credere, al suo risveglio, un uomo ricco che dovrà dominare una bisbetica. Un teatro che ne introduce un altro, in un gioco di ruoli.
La storia, ambientata a Padova, racconta di Caterina, figlia insolente di un ricco signore che nessuno vuole sposare per via del suo caratteraccio, a differenza della sorella Bianca, considerata esempio di virtù e corteggiata da molti pretendenti che però potrà sposarsi solo dopo che la sorella maggiore si sarà maritata.
Pertuccio, giovane veronese in cerca di una moglie ricca, attratto dalla dote di Caterina la ottiene in sposa, destando meraviglie e perplessità nella gente a cui va dicendo: “Credete che qualche strepito possa ferirmi le orecchie?… la lingua di una donna neanche eguaglia lo schiocco d’una castagna nel focolare di un contadino”. Convinto di farne una docile moglie, Petruccio, nella sua casa di campagna, costringe Caterina a privazioni e umiliazioni di ogni genere, per domarne l’irruente carattere.
Alla fine della commedia, durante una festa, lo scaltro Petruccio riuscirà a dimostrare a tutti i convitati ammogliati, che la sua Cate é la moglie più obbediente tra tutte le presenti. Sarà Caterina, nel suo monologo finale, a raccomandare alle donne di “spianare la fronte minacciosa e di non scagliare altezzosi sguardi verso il proprio marito”. Una donna capricciosa, arcigna, disobbediente diventa brutta a vedersi e perde ogni grazia, se ha il cuore gonfio di orgoglio e di ribellione.
Il dramma, scritto originariamente per una compagnia di soli uomini, come accadeva ai tempi di Shakespeare, sarà riproposto nella stessa maniera con interpreti solo maschili. Una sperimentazione nel solco della tradizione in una commedia che «contiene anche il lato oscuro, farsesco e forse tragico nel quale si cela l’eterno conflitto tra eros e psiche» spiega Tarasco. Ma al di là delle filosofie e dei sensi più profondi, sarà interessante vedere quale effetto sortirà questa scelta registica, normale ai tempi di Shakspeare ma inusuale ai nostri giorni, se non sia pura spettacolarizzazione ma intelligentemente orchestrata e se sappia rendere l’ironia caratteristica dell’autore.
Rimane solo una constatazione: sorprende vedere che un festival di tale portata, unico in Italia dedicato alle opere dell’attore e drammaturgo William Shakespeare, abbia solamente due spettacoli in cartellone. Un’idea potrebbe essere quella di valorizzare quei teatri che lavorano di un artigianato costante e che sono fucine di creatività dando così spazio a figure emergenti, accanto a nomi conosciuti, per offrire una maggiore varietà di proposte. (P.Q.)

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